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Il modello e la prova

La pandemia ha portato alla luce lo scontro epistemologico fra scienziati liberali e conservatori

La frustrazione di chi chiede alla scienza “certezze inconfutabili” (copyright Francesco Boccia, ministro) non può che essere cresciuta in questi mesi in cui virologi, epidemiologi, infettivologi e modellisti di epidemie simulate di tutto il mondo si sono confrontati, e non di rado irrisi, a suon di previsioni sull’andamento del contagio e sulle misure adeguate per contenerlo. Alcune previsioni hanno descritto fenomeni che hanno poi tendenzialmente trovato riscontro nei fatti, altre molto meno, alimentando nel pubblico assetato dell’inconfutabile la falsa impressione che la comunità scientifica sia costituita per metà da illuminati esperti con un h-index sufficiente a ricevere un invito da Fabio Fazio e per metà da famacisti-youtuber sponsorizzati da Red Ronnie che hanno trovato il farmaco alternativo (ma i poteri forti non ve lo vogliono far sapere!). Questa semplificazione truffaldina, che deriva appunto da un’aspettativa sproporzionata a quanto la scienza può effettivamente dare, non spiega tuttavia perché nel dibattito ci sono i Neil Ferguson, il cui modello non è stato invalidato dalla sua personale condotta, ma anche i John Ioannidis, secondo cui siamo di fronte al fiasco scientifico del secolo. Uno insegna all’Imperial College, l’altro a Stanford, hanno entrambi carriere impeccabili, pubblicazioni a schiovere e probabilmente non sottopongono soltanto le questioni di cuore a peer review. Come possono dire cose tanto diverse?

  

Il problema epidemiologico è in realtà epistemologico. La pandemia ha mostrato anche a un pubblico normalmente distratto sul tema della diffusione dei virus un dibattito fra due scuole di filosofia della scienza. Una è l’epidemiologia della sanità pubblica, l’altra quella clinica.

 

La prima mette al centro i modelli, cioè simulazioni su base matematica sugli sviluppi delle epidemie in base alle conoscenze precedenti; la seconda è invece imperniata sulle prove sperimentali, e dunque non può prescindere dalla raccolta di dati in ambito clinico. I rappresentanti della prima scuola, come Ferguson o Marc Lipsitch di Harvard (ma anche Bill Gates, pur non essendo epidemiologo, condivide la metodologia), lavorano su epidemie simulate che si abbattono su popolazioni simulate, naturalmente usando modelli molto sofisticati che sono in grado almeno in parte di correggere i propri bias e di mettere alla prova gli assunti da cui muovono. Mentre scienziati come Ioannidis o Didier Raoult, idolo marsigliese della reazione contro lo snobismo elitario di Parigi, insistono sulla necessità di raccogliere prove sperimentali e condurre studi randomizzati sulla specifica epidemia. Le due sensibilità scientifiche svelano concezioni del mondo in tensione fra loro.

 

Il filosofo della scienza Jonathan Fuller ha spiegato, in un saggio sulla Boston Review, che la scuola della sanità pubblica “è metodologicamente liberale e pragmatica”, mentre l’approccio clinico “tende a mettere al primo posto la qualità dei dati, è metodologicamente conservatore e scettico”. Quando dice “liberale”, Fuller intende che è aperto a combinare diversi metodi, mentre il pragmatismo consiste nel fatto che è orientato allo scopo di proporre misure sanitarie efficaci e tempestive. Quelli della scuola rivale, invece, sono conservatori nel senso che rifiutano la dimensione speculativa che è il perno dei modellisti e basano le scelte sui dati sperimentali, mentre sono scettici perché di fronte a un’evidenza confermata sono pronti ad abbandonare qualunque teoria accettata in precedenza. Lo scontro fra scienziati per interpretare la pandemia non è (solo) tra competenti e cialtroni, ma fra fiduciosi adepti dei modelli astratti e scettici servitori delle prove empiriche.

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