dove va la guerra

Crimea 2023: La penisola pericolosa per tutti

Cecilia Sala

Se la penisola è contendibile, cambia tutto per Kyiv ma pure per Putin. La resistenza interna, il consenso locale e le pressioni internazionali per il negoziato che precipitano tutte qui, su 27 mila chilometri quadrati

Da quando è iniziata la guerra dieci mesi fa, più di ottocento attacchi contro l’Ucraina sono partiti dalla Crimea occupata. A dicembre un ufficiale dell’Amministrazione Biden ha detto al Congresso americano che se Kyiv volesse, avrebbe già oggi la capacità militare di riconquistarla tutta. Sono ventisette mila chilometri quadrati di penisola e sarebbe una controffensiva imparagonabile a quelle già viste nella regione di Kharkiv a settembre e in quella di Kherson a novembre. A settembre un soldato dell’unità Hartiya aveva detto al Foglio che lui e i suoi compagni erano impazienti di spingere la controffensiva più a sud e “oltre i falsi confini che si sono creati dopo il 24 febbraio”, ma che il loro comandante aveva risposto così: “Per la Crimea bisogna aspettare il 2023”.

 

Tra gli analisti militari di Kyiv ci sono due scuole di pensiero: la prima è convinta che liberare la Crimea sia un obiettivo possibile e necessario – anche per proteggere il resto del territorio ucraino. Per la seconda minacciare la penisola è un gioco psicologico: serve a fare pressione su Vladimir Putin per costringerlo a cedere altrove. 

 

Nessuna singola azione di Putin nei suoi ventidue anni al potere ha provocato in Russia un’euforia simile all’euforia scatenata dall’annessione nel 2014. Putin ha definito la Crimea un “luogo sacro” e Dmitri Medvedev ha minacciato che, se fosse stata toccata, sarebbe arrivato il “giorno del giudizio” per l’Ucraina. Se la Crimea è contendibile, “questo cambia ogni cosa non solo per Kyiv, ma è la stessa capacità di Putin di mantenere il potere in Russia che a quel punto verrebbe messa in discussione”, dice la professoressa Olga Chyzh che insegna all’università di Toronto ed è un’editorialista del Guardian

 

Per Kyiv, il prossimo fronte della guerra è di nuovo nel sud e in direzione della città di Melitopol: occupata, come Kherson, all’inizio dell’invasione e, proprio come succedeva a Kherson, piena di partigiani ucraini al lavoro dietro le linee dei russi.

 

Kyiv ha già cominciato una campagna per isolare i soldati nemici nella città e nell’area, la strategia è identica a quella che ha funzionato per l’ultima città liberata, cioè il bombardamento sistematico dei depositi di armi e delle linee di rifornimento di Mosca con i lanciarazzi americani Himars. L’obiettivo è che, a un certo punto, quei russi si ritrovino soli, considerino la situazione sul campo insostenibile e si ritirino come hanno fatto da Kherson all’inizio di novembre. Liberata la zona di Melitopol, gli Himars di Kyiv avrebbero nel proprio raggio di azione la Crimea. 

 

“Come mi sono sentita il 9 agosto? Grata. Non è un caso, ma un segnale, che sia successo nella nostra giornata mondiale, quella delle persone indigene”, dice al Foglio Tamila Tasheva, che è una tatara crimeana e la rappresentante permanente del presidente ucraino per la Repubblica autonoma di Crimea. Il 9 agosto è stato il giorno del primo attacco spettacolare di Kyiv in Crimea, quello alla base aerea russa di Saky. Dalle spiagge tutte intorno si sentivano gli scoppi delle esplosioni secondarie e si vedeva una lunga colonna di fumo nera. I russi in vacanza erano corsi verso le auto e si erano incolonnati sul ponte di Kerch per scappare.

 

“Quel giorno ho ricevuto centinaia di messaggi di tatari e non solo che vivono in Crimea: della resistenza crimeana si parla pochissimo, ma esiste e in questi otto anni di occupazione ha imparato tutte le tecniche che servono per comunicare con noi in modo sicuro”. Il 28 febbraio un residente di Simferopoli, la seconda città più grande della Crimea, ha caricato su YouTube un video in cui diceva che l’aggressione russa all’Ucraina cominciata quattro giorni prima era qualcosa per cui i russi non avrebbero mai ottenuto perdono. Lo stesso giorno un uomo ha attaccato un poster contro “l’operazione speciale” di Putin sul monumento ai caduti della Seconda guerra mondiale nel centro della città.

 

Valentyna Shuman ha cominciato ad appoggiare sui parabrezza delle macchine parcheggiate dei volantini di 30 centimetri per 20 con la bandiera gialla e blu ucraina. La pensionata di Yalta Olena Gukova è finita sotto processo per aver definito “senza senso” la guerra del Cremlino. In tribunale si è dichiarata colpevole: “Ci sono centinaia di persone innocenti che stanno morendo in questo momento in Ucraina, non provate a dirmi che non è colpa vostra”. Il 9 marzo qualcuno ha disseminato di fiori gialli e blu il piedistallo sotto la statua del poeta ucraino Taras Shevchenko. Il 25 marzo qualcuno ha scritto “No alla guerra” addirittura sul muro del Parlamento crimeano controllato dai russi.

 

Tra aprile e giugno decine di ragazze e ragazzi di Kerch e di Sebastopoli, tra cui Illia Hantsevskii e l’attivista tataro Abdureshyt Dzhepparov, sono stati arrestati per i loro post contro Mosca sui social. Una ragazza ventitreenne di Sebastopoli è stata condannata a pagare trentamila rubli (400 euro) che non ha per aver condiviso un meme ucraino che ironizzava sull’affondamento della nave ammiraglia Moskva. C’era scritto: “Nave da guerra russa: vaffanculo! Ok, ci è andata per davvero”. In un parco pubblico della sua città, sulle quattro panchine messe in fila sull’erba, qualcuno ha scritto con la bomboletta spray azzurra i nomi delle città ucraine devastate dai russi: “Bucha”, “Mariupol”, “Kharkiv”, e poi: “Quale sarà la prossima?”.

 

Il meccanico Vilen Seitosmanov si è rifiutato di riparare l’equipaggiamento militare di un soldato russo: il giorno dopo gli hanno distrutto l’officina. La maestra Susanna Bezazieva è stata licenziata per aver condannato la guerra, in classe. L’artista Bohdan Zizov detto “Ziza” ha lanciato vernice gialla e blu sulla porta del palazzo del comune e Aziz Faizulaiev ha lanciato delle molotov contro il vetri delle finestre dell’amministrazione di occupazione di Saky. 

 

Che l’attacco alla base di Saky sia avvenuto proprio il 9 agosto era un omaggio all’etnia indigena della Crimea, i tatari perseguitati prima da Joseph Stalin e poi da Vladimir Putin. Anche l’operazione che ha preoccupato di più Putin, il sabotaggio con un camion bomba al ponte di Kerch che collega Crimea e Russia, è avvenuto in una data simbolica: a poche ore dal suo compleanno. La dinamica di entrambi gli eventi implica che ci siano dei partigiani di Kyiv – che si coordinano con le forze speciali ucraine – in Crimea. 

 

“La Crimea è una Eurasia in miniatura, è uno specchio”, dice al Foglio Serhii Gromenko, uno storico trentenne ucraino che è nato a Simferopoli e oggi insegna a Zaporizhzhya. La popolazione crimeana non è etnicamente ucraina e non era – prima delle deportazioni – etnicamente russa. “La questione, più che etnica, è un’affinità elettiva”: i tatari di Crimea e i cosacchi ucraini sono stati per secoli due piccoli popoli ribelli incastonati tra grandi potenze e si sono alleati spesso per non farsi schiacciare da queste. “In un evento storico piuttosto unico erano pure riusciti, insieme, a incendiare Mosca”. Era il 1521. Anche con la rivoluzione d’ottobre nel 1917, gli ucraini e i crimeani fanno un accordo per la difesa reciproca dai bolscevichi: “Ma tre anni dopo i bolscevichi si sono presi tutto comunque”.

 

“La Crimea è un posto magico perché alla bellezza naturale si mescolano opere antiche di tutti: i romani, i papi, i tatari e gli ottomani, i russi, i mercanti italiani: la mescolanza è sopravvissuta per secoli, ma non è sopravvissuta a Stalin”. La famiglia ucraina di Gromenko era arrivata in Crimea dopo che l’Armata rossa l’aveva liberata dai nazisti e, allora, “la prima cosa che ha fatto Stalin è stata deportare: i tatari, che da quel momento non sono più stati la maggioranza, ma anche gli italiani. I miei antenati sono stati portati lì per lavorare nelle fattorie collettive”. Tamila Tasheva è nata in Uzbekistan perché la sua famiglia era stata deportata nel dopoguerra. 

 

La legittimità di una controffensiva in Crimea non è in discussione perché per il diritto internazionale è un territorio ucraino. La capacità militare di Kyiv, secondo la Casa Bianca, neppure. La questione irrisolta è il consenso: “La tattica che Putin ha ereditato da imperatori e sovietici (deportazioni delle minoranze e ripopolazioni forzate con famiglie russe) funziona. Come per l’Ossezia in Georgia, ma anche l’enclave di Kaliningrad che, nella storia, è stata offerta più volte ai lituani: i russi vorrebbero una loro componente ovunque per costruirsi una falsa legittimazione e poi mettere la controparte di fronte al fatto compiuto e provare a prendersi l’intero con la forza. In Georgia è successo nel 2008, i lituani invece hanno sempre capito la trappola e hanno sempre rifiutato Kaliningrad”, continua Gromenko.

 

Da quasi nove anni in Crimea vigono le regole dispotiche di Putin e si può leggere e ascoltare soltanto la sua propaganda, con le politiche di deportazione e di ripopolazione forzata oggi il sessanta per cento dei due milioni di abitanti è russo. Difficilmente i soldati di Kyiv sarebbero accolti con una festa come è successo a Kherson e come accadrebbe a Melitopol.

 

Quando l’Amministrazione Biden ha parlato al Congresso della capacità militare di Kyiv di riprendere la penisola, l’ha descritta come un’ipotesi pericolosa da evitare. Se le soluzioni al conflitto che propone Henry Kissinger sono considerate non potabili (e insultanti) da Volodymyr Zelensky, negli stessi giorni in cui Kissinger parlava del riconoscimento della Crimea come russa, l’ex primo ministro britannico Boris Johnson proponeva la stessa cosa – ma in cambio del ritiro da tutti i territori occupati dopo il 24 febbraio 2022 – sul Wall Street Journal.

 

BoJo nell’ultimo anno è diventato un amico personale di Zelensky, loro due continuano a sentirsi e a consigliarsi. A Kyiv sono grati a Johnson per molte cose, anche perché credono che la sua presenza nella capitale il 24 agosto scorso abbia permesso a tutti di festeggiare la giornata dell’Indipendenza ucraina nonostante la guerra: passeggiava per il corso principale, il Khreshchatyk, accanto a Zelensky e questo inibiva un possibile bombardamento russo sul centro della capitale in quel momento. A BoJo gli ucraini hanno dedicato una canzone che è diventata una hit e hanno pure ipotizzato di intitolargli una via in città. Rispetto a quella di Kissinger, quella di BoJo potrebbe assomigliare di più all’ipotesi di futuro negoziato che ha in testa anche il presidente dell’Ucraina.

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