Un dettaglio del dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, "Lotta tra Carnevale e Quaresima"

Roma Capoccia - la tradizione abbandonata

I quaresimali, ossia una lunga storia di dolci evasioni in Quaresima

Giovanni Battistuzzi

Quaranta giorni di magro li si possono pure sopportare, ma senza dolci pure i sant’uomini zoppicano, figurarsi tutti gli altri. Quei secoli che ci hanno riportato alla scoperta dei maritozzi che si preparavano in Quaresima (che non sono medioevali)

Maledetti dolci. Che si sa che se c’è qualcosa per la quale si può disubbidire a chiunque e a qualunque precetto è proprio il dolce. Pure quel sant’uomo di san Tommaso d’Aquino era capace di resistere a molte tentazioni ma non a quella del dolce. E così, per giustificarsi, scrisse che lo zucchero aiutava la digestione e che era quindi consentito anche quando non lo sarebbe stato. Il problema era il Codice di Diritto canonico che diceva: “Sono giorni e tempi di penitenza nella Chiesa universale tutti i venerdì dell’anno e il tempo di Quaresima”. Quaranta giorni di magro li si possono pure sopportare, ma senza dolci pure i sant’uomini zoppicano, figurarsi tutti gli altri. E così già dall’anno mille si iniziarono a trovare scappatoie. Nel tredicesimo secolo l’escamotage lo trovò san Tommaso d’Aquino, poi lo raffinarono in tanti. E così, quello che prima veniva prodotto illegalmente nemmeno fossero metanfetamine, diventò lecito. E fu un profluvio di dolci quaresimali che si diffusero un po’ a macchia di leopardo in tutta Italia. Ogni grande città aveva il proprio che spesso, generazione dopo generazione, mutava. In campagna no: solo lavoro e miseria. Un limite però era rimasto: non dovevano contenere sostanze di derivazione animale. Dolci leggeri, insomma: era pur sempre Quaresima.

I dolci quaresimali di oggi fanno tutti riferimento a tradizioni che si perdono nei secoli. E spesso fasulle, sistemate alla bell’e meglio per farsi belli con la storia. Per il semplice fatto che è improbabile che una ricetta abbia passato intatta i secoli, un po’ perché i gusti si sono evoluti, soprattutto perché la tradizione orale è più imprecisa della traiettoria di un piccione (che spesso veniva proprio mangiato semidolce, al miele, nel Duecento).

A Roma piacevano parecchio i maritozzi quaresimali, ossia dei panini dolci (ma senza latte e burro nell’impasto) con all’interno frutta candita e secca. Già nel Settecento i quaresimali erano diffusi in città. Giovanni Battista Piranesi in una lettera al nobiluomo britannico Thomas Hollis ricordava quelli del sor Cesiro “morbidi e profumati” e “con un gusto di limone impareggiabile”. Amante dei quaresimali era anche Achille Campanile che, dopo il decreto Paenitemini di papa Paolo VI che escludeva i dai precetti alimentari, si chiese: “E ora è aperta la via che sporcherà i quaresimali di burro e altre nefandezze”. Dove ci sono ancora, perché tra le vetrine di qualche forno ci sono ancora, i quaresimali sopravvivono ancora immacolati da “burro e altre nefandezze”.

   


    

La prima puntata della serie sui piatti romani messi in disparte è dedicata al picchiapò (la potete leggere qui), la seconda invece alla pastipane o sugnipane (la potete leggere qui), la terza parla della Gianna (la potete leggere qui), la quarta alla ciofella (o carciofella – ecco l'articolo), la quinta alla vignarola (qui per la lettura),

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