Dos viejos comiendo sopa di Francisco Goya, Olio su muro trasferito su tela, 1819-1823, Museo del Prado – Madrid 

Roma Capoccia - la tradizione abbandonata

Le trattorie romane erano un tripudio di zuppe. E la pastipane era la regina

Giovanni Battistuzzi

Prima della triade capitolina delle paste (amatriciana, cacio e pepe e gricia, poi raggiunte dalla carbonara), i primi a Roma erano soprattutto zuppe e minestre. E la più apprezzata ora non si mangia più

Prima che i censori della tradizione culinaria romana elevassero amatriciana, cacio e pepe e gricia a Triade capitolina dei primi piatti – trovando poi un posto al loro fianco alla carbonara per il grande successo che ottenne dagli anni Sessanta in poi –, le osteriole romane erano un gran trionfo di zuppe. E la più richiesta, perché a più buon mercato, era la pastipane o pastipan o pestepane o sugnipane. Un nome solo non ce l’ha mai avuto, ma l’ultimo rende meglio l’idea di questo piatto tanto “tradizionale” da essere ignorato dagli anni Settanta in poi dalla tradizione. Va sempre così: uno si fa la tradizione che vuole e che pensa di meritare. L’avvento di un diffuso benessere ha fatto scomparire dai menù di trattorie e ristoranti quel piatto del quale Giuseppe Prezzolini nel 1916 scriveva “scalda il corpo come pochi e ti prepara per affrontare il freddo della sera”.

A Roma non c’era una pastipane, c’erano innumerevoli pastipane, ognuno aveva la sua, come tutti i piatti che hanno passato i secoli. I disciplinari sono arrivati dopo, parecchio dopo. La pastipane era una zuppa di pane secco e brodo di carne che prevedeva l’aggiunta di sedano, cipolle e verze (o biete o cicoria a seconda di quello che c’era) ammollati nello strutto (da cui la variante “sugnipane”) e poteva contenere anche o rigaglie di pollo o trippe o qualche altra frattaglia. Ma solo nella versione ricca.

Achille Campanile sulla Tribuna ricordava con nostalgia quella che mangiava in un’osteriola vicino al Liceo Mamiani “dove il sedano scrocchiava e la cicoria rafforzava il gusto” e che “quando c’erano le trippe la bocca si riempiva di un’intensa gioia” e “una volta usciti anche il freddo sembrava meno freddo”. Per il regista Carlo Ludovico Bragaglia invece la sugnipane, così la chiamava – anche perché nel frusinate questa zuppa non prevedeva frattaglie, ma solo ortaggi cotti nello strutto e poi allungati con brodo vegetale e pane raffermo –, “era l’anima de Roma”, a tal punto che nel suo primo film, “O la borsa o la vita”, trovò un posto nella scena finale davanti al protagonista Daniele, impersonato da Sergio Tofano.

La pastipane o sugnipane non c’è più, è stata immolata sull’altare del benessere. Non che la cosa abbia fatto dispiacere a tutti. In un’intervista al Messaggero, Bombolo (Franco Lechner), disse: “A pensare alle schifezze che si doveva mangiare in gioventù perché non c’era altro, tipo la pastipane, non sono poi male questi anni Ottanta”.

 


   

La prima puntata della serie sui piatti romani messi in disparte è dedicata al picchiapò (la potete leggere qui)

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