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Shangai Connection: ascesa e caduta del Più di Tor Marancia

Andrea Venanzoni

Sergio Maccarelli, pugile riottoso e boss del noto quartiere romano è l'esemplificazione di coloro che si atteggiavano a capi, ma poi sono finiti a tappezzare la cronaca nera, per aver creduto con poca avvedutezza di trasformare il crimine romano in una ‘cosa seria'

 Shanghai. Ma senza cinesi. Né lanterne di carta che si librano in cielo. Voragini illanguidite dall’acqua piovana, disconnessioni sull’asfalto e povertà, tanta, con crepe longitudinali che saettano sul tufo delle abitazioni. Tor Marancia, anni Settanta. La chiamano Shanghai proprio per questo irrisolto problema piovano. L’aria è malsana, rustica, nutrita di coltelli, bische e volti da poliziottesco, quel genere cinematografico di volti crudeli scacciati dalla vita, a bruciacchiarsi le mani davanti il falò di un ardersi poco eroico. Come ogni borgata dimenticata dallo sguardo di Dio, pure qui imperversa un balordo, un prepotente con manie di grandezza, la cui ellissi esistenziale si consuma nel passo più lungo della gamba.
La forza è nulla senza il controllo, recitava un popolare spot tecnologico, che a ben vedere potrebbe diventare il motto araldico di tutti i minuscoli Er Più periferici della capitale che si atteggiavano a boss e che poi sono finiti a tappezzare la cronaca nera, per aver intersecato con poca avvedutezza la traiettoria della trasformazione del crimine romano in una ‘cosa seria’.


Sergio Maccarelli, pugile riottoso e boss di Tor Marancia, ne è la perfetta esemplificazione antropologica. Appartenente a un genere di delinquenza quasi idealizzata nei quartieri, di quel tempo manifestatosi prima che ammazzare qualcuno a colpi di pistola venisse considerato un hobby di cui parlare in scadenti liriche trap, Maccarelli era il classico bullo di quartiere con manie di grandezza e poca voglia di lavorare. Mise su una sorta di banda con cui proteggere, cioè taglieggiare, bische e sale da gioco, commerciare illecitamente ed ergersi a reuccio in un’epoca in cui sembrava che il colpo tonante di mano potesse sostituire la sovranità statale. Ma pure le schioppettate che sarebbero giunte di lì a poco. Ex campione regionale di boxe, Maccarelli si accompagna a un gruppetto che cerca di integrarne la potenza fisica con qualche idea organizzativa. Lui si è bruciato con la legge sin da giovanissimo, alla fine degli anni cinquanta commette una serie di furti di auto e di altri beni. Il suo nome interseca la genesi della Banda della Magliana, pur senza un contatto davvero diretto per chiari motivi storici. Come spesso avviene in quella caotica, lercia e anarchica Roma delinquente, tutti finiscono per conoscere tutti, nel rimescolamento geopolitico del crimine. E Maccarelli, il pugile che va in palestra con la pistola, come lo definirà il magistrato Otello Lupacchini nella sua storia della Banda della Magliana, è in fondo il simbolo di una tipologia di criminalità buzzurra e spavalda che la Banda ambirà a spazzare via.


La storia di questo pugile non particolarmente tecnico ma ardimentoso, prestato al crimine, privo della lucidità spietata di chi verrà dopo di lui, è esemplare su come e quanto certi abbagli, certi romanticismi da borgata siano letali: perché Maccarelli non è tanto diverso dai megalomani pseudo-criminali che del delitto spicciolo vogliono fare prassi quotidiana, esorcismo da una vita scialba, banale e dall’idea di dover faticare e lavorare. Maccarelli farà il gradasso con le persone sbagliate, si infilerà in storie più grandi di lui e finirà così liquidato in strada da un commando. C’è chi dice un agguato figlio dell’aver pestato troppi piedi, siciliani e calabresi delle ‘batterie’ dell’Alberone o la vendetta di Danilo Abbruciati pestato poco tempo prima da Maccarelli a seguito di un feroce diverbio. Si dice, già, perché il delitto rimarrà impunito. Tra il 18 ottobre del 1972, quando il trentaduenne Maccarelli viene ammazzato nel suo quartiere assieme al fido Italo Pasquale, venticinquenne residente a Monteverde, e i due mesi successivi, Roma conosce una scia di sangue che porta alla eliminazione di quasi tutte le figure considerate scomode da quell’universo criminale che si sarebbe consolidato pochi anni dopo nella Banda della Magliana. Giuseppe Alfano, Carlo Faiella, figure legate alla mala di Joe Adonis, sette uccisi e diciassette feriti in totale in due mesi. Per l’omicidio Faiella faranno la loro comparsa tra i sospettati Ernesto Diotallevi e Danilo Abbruciati, entrambi futuri membri di spicco proprio della Banda della Magliana.