Ansa

Altro giro, altra verità

Borsellino, la sua morte trasformata in una giostra giudiziaria

Riccardo Lo Verso

Un girotondo impazzito al quale hanno preso parte giudici, investigatori, pentiti, giornalisti e molti cavalieri della fuffa. Dodici dibattimenti, dodici sentenze, nessuna certezza

Ci sono saliti in tanti e molti altri lo faranno. Chissà chi ha avviato l’ingranaggio. Non c’è tempo di porsi domande. La grande giostra gira veloce. E la velocità confonde, risucchia la netta differenza fra i figli del dolore, che ne avrebbero volentieri fatto a meno, e chi sgomita per trovare posto e ingrassare l’amor proprio. Fra chi si impegna perché ci crede davvero e chi cerca solo uno strapuntino di notorietà. Fra magistrati e investigatori animati da spirito di servizio e carrieristi.
 
Il risultato è che 31 anni dopo la strage di via D’Amelio si sono smarrite troppe cose. La verità, innanzitutto. A volte anche il decoro e il senso della misura, sentimenti che il rispetto per i defunti avrebbe dovuto suscitare. Si fa fatica a stare dietro al turbine degli accadimenti. Spunta ogni giorno un nuovo super testimone, un nuovo verbale, un nuovo decreto di perquisizione. In Procura, a Caltanissetta, competente per le indagini sulle stragi di mafia, prima o poi finirà lo spazio fisico dove archiviare tonnellate di carte.
 
La giostra è stata soprattutto giudiziaria. Il resto è venuto da sé. Unica eccezione la fermata, seppure tardiva, per far scendere i saltimbanchi della giustizia spacciati per collaboratori. Il prezzo pagato è stato altissimo in termini di credibilità. Si è scoperto che erano stati condannati degli innocenti rimasti a lungo in carcere. E’ potuto accadere perché non uno ma un centinaio di magistrati, fra giudici (compresi quelli popolari) e pubblici ministeri, hanno preso per buone, senza mai dubitarne, le dichiarazioni dei falsi pentiti. Molti di loro oggi si indignano parlando di depistaggio, continuano a imbastire processi (e quando li perdono ripiegano su quelli mediatici che funzionano sempre laddove le chiacchiere valgono più delle prove), danno la caccia ai fantasmi pur di non ammettere di avere preso un clamoroso abbaglio collettivo.
 
Tra il 1996 e il 2021 sono stati celebrati cinque processi (Borsellino, Borsellino bis, Borsellino Ter, Borsellino quater e quello di revisione a Catania). Tra primo grado, appello e Cassazione significa dodici dibattimenti che si sono spesso sovrapposti non solo per il tema trattato, ma anche temporalmente. Solo negli anni più recenti i magistrati hanno aperto gli occhi dopo che per una lunghissima stagione la loro posizione si è appiattita sui racconti dei pentiti. Avrebbero potuto smascherare e zittire sul nascere Vincenzo Scarantino e soci. E’ andata diversamente. Le sentenze sono state un inno alla loro attendibilità.
 
I giudici del primo processo, celebrato davanti alla Corte di assise presieduta da Renato Di Natale, ritennero provato che un balordo di borgata come Scarantino fosse in realtà un killer di mafia. Per accreditarsi, infatti, non raccontò solo della strage, ma disse di avere commesso una sfilza di omicidi. Poteva, d’altra parte, un malacarne stare al fianco di Totò Riina in uno dei momenti più drammatici della storia d’Italia e di Cosa nostra? Per rendere credibile se stesso, ancora prima del suo racconto, Scarantino, sconosciuto ai mafiosi e all’intelligence (?) antimafiosa, si inventò di avere ammazzato una decina di persone. Alzò la manina e si autoaccusò. Anni dopo avrebbe detto di averlo fatto sotto tortura del capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, il super poliziotto che guidava il gruppo investigativo sulle stragi e che dopo la morte è diventato l’uomo dei misteri. Da solo, o con complici rimasti nell’ombra, così dicono le più recenti ricostruzioni, La Barbera avrebbe ideato il depistaggio obbligando a suon di botte e soprusi i collaboratori di giustizia affinché recitassero un copione. La verità è che per un paio di decenni gli unici a mettere in guardia dalle bugie di Scarantino sono stati gli avvocati degli imputati. Si poteva mai dare ascolto a chi difendeva i carnefici?
   

Il 19 luglio del 1992 un'auto bomba esplode alle 16.58 in via D'Amelio (Archivio ANSA) 
   

La Corte di assise del primo processo spiegò che Scarantino non si era pentito per “sottrarsi alla severa condanna per i fatti commessi, ma piuttosto nella volontà di garantirsi un bene ben più prezioso della libertà personale, la propria vita”. L’assunto era che i boss, quelli veri, lo avrebbero eliminato: “Egli non teme la condanna degli organi dello stato, ma sa sa bene che dovrà pagare a Cosa nostra l’imprudenza commessa, affidandosi a Candura per il reperimento dell’autovettura che doveva essere utilizzata per la strage”. Quel Salvatore Candura a cui la stessa Corte assegnò “il crisma dell’attendibilità” (frase usata nella motivazione della sentenza). La sua collaborazione “appare il frutto di una precisa scelta, certamente sofferta e tormentata, cui il medesimo si è comunque determinato in maniera del tutto autonoma e spontanea, senza aver ricevuto all’uopo pressioni o sollecitazioni da alcuno”. E invece ha mentito. Un paio di mesi dopo la strage, i primi giorni di ottobre 1992, raccontò di avere rubato la Fiat 126 poi imbottita di esplosivo e parcheggiata sotto casa della mamma di Borsellino, in via D’Amelio. Nel 1994 credette che patteggiare una pena per il furto gli avrebbe garantito un futuro tranquillo. Pochi mesi fa la Cassazione ha definitivamente respinto la sua tragicomica richiesta di essere risarcito dallo stato per l’errore giudiziario di cui si riteneva vittima, ma che egli stesso ha contribuito a creare. A meno che Candura non si riferisse al fatto che la colpa non è di chi si è inventato delle panzane e ha traccheggiato con il dolore altrui, ma di coloro che gli hanno dato credito.
 
Di “puntigliosa ricostruzione con dovizia di particolari” parlavano i giudici nel caso di un terzo pataccaro, Francesco Andriotta, l’ergastolano che giurò nel 1993 di avere raccolto – in cella – le confidenze di Scarantino sulla strage, puntellando l’impalcatura delle menzogne.
 
I racconti dei collaboratori di giustizia passarono al vaglio della Corte di appello presieduta da Giovanni Marletta. La fede in Scarantino non traballò neppure di fronte alla sua ritrattazione. A un certo punto, infatti, in un rigurgito di dignità il falso pentito spiegò di avere mentito per sfuggire alle torture subite su ordine di La Barbera nel carcere di Pianosa. “Controdichiarazioni inserite in un contesto simulatorio”, scrissero i giudici. Perché avrebbe dovuto simulare? Scarantino era stato nel frattempo “demolito”. Era il 1995, mica ieri, quando si trovò faccia a faccia con Gioacchino La Barbera, Mario Santo Di Matteo e Salvatore Cancemi, e cioè con tre pentiti, questi sì, attendibili. Se Scarantino “fa parte di Cosa nostra” allora “sono cambiate le regole”, diceva La Barbera. Di Matteo tagliò corto: “… o tu sbagli persona o stai dicendo un sacco di cazzate”. Cancemi era stato il più tranciante: “… tu non lo sai cosa significa uomo d’onore, tu sei bugiardo… quello che vi sta dicendo (rivolto ai magistrati) è una lezione che qualcuno gli ha messo in bocca”. Eppure i giudici dissero che era solo una questione semantica, “di terminologia mafiosa”, dovuta al fatto che Scarantino “non apparteneva all’aristocrazia di Cosa nostra, non era stato presentato anche per questo fuori dal mandamento”, era un semplice killer e guardaspalle e forse non era neppure “un uomo d’onore in senso formale”. Il paradosso si raggiunse quando si resero conto che, al di là di ogni ragionevole dubbio, Scarantino una bugia gliela aveva certamente rifilata. Riferì che i tre collaboratori presero parte alla riunione in cui furono deliberate le stragi. La Corte, però, diede la colpa all’intervento di “soggetti esterni”, “suggeritori ed esponenti di Cosa nostra” per inquinare le indagini. La ritrattazione finì per essere la conferma che Scarantino avesse detto la verità.
 
Anche al Borsellino bis piovvero gli ergastoli che in primo grado, nel 1999, il collegio presieduto da Pietro Falcone inflisse a una sfilza di capi mafia sanguinari. Tre anni dopo in appello, il presidente era Francesco Caruso, la condanna fu estesa ad altri imputati tra cui coloro che anni dopo sarebbero stati assolti e scarcerati nel processo di revisione avviato a Catania. Era intervenuto Gaspare Spatuzza, killer di Brancaccio, a picconare il racconto di Scarantino. Fece emergere quello che è stato definito il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana.
   

Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, con Nino Di Matteo (Ansa) 
    
Un depistaggio finora senza colpevoli. Sempre a Caltanissetta nei mesi scorsi sono state dichiarate prescritte le accuse nei confronti dei poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei. Il terzo agente imputato, Michele Ribaudo, è stato assolto nel merito. E’ da poco iniziato il processo di secondo grado. Gli imputati assieme a La Barbera avrebbero infiocchettato Scarantino per rifilare il pacco ai magistrati. Avrebbero fatto tutto da soli. Così si deduce dall’esito di inchieste e processi. Nel 2021, infatti, a Messina è stata archiviata, su richiesta della stessa Procura, l’indagine nei confronti dei pubblici ministeri Carmelo Petralia e Annamaria Palma. Due magistrati che hanno fatto carriera (procuratore di Ragusa e aggiunto a Catania il primo, avvocato generale della Corte di appello di Palermo la seconda), ma che nel 1992 erano sostituti alla Procura di Caltanissetta guidata da Giovanni Tinebra. Furono loro a interfacciarsi nella fase iniziale con Scarantino. Il giudice di Messina chiuse il caso perché non ravvisò condotte penalmente rilevanti. Sottolineò, però, che “ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore”. Basterebbe citare il mancato deposito dei verbali di confronto tra Scarantino, Cancemi, Di Matteo e La Barbera del gennaio 1995. Oltre a Petralia e Palma a maneggiare le dichiarazioni di Scarantino era stata pure Ilda Boccassini che prima di tornare a Milano e legare il suo nome alle inchieste su Silvio Berlusconi, dopo due anni in Sicilia, consegnò una relazione a Tinebra. E’ vero che invitava i colleghi a prendere con le pinze l’attendibilità di Scarantino. Altrettanto vero è che negli anni successivi non si ricordano altri interventi di Boccassini per segnalare che il treno su cui stavano ostinatamente seduti i colleghi stava deragliando. Anche Antonino Di Matteo, il pm del processo sulla “trattativa stato-mafia” oggi alla Procura nazionale antimafia, ritenne attendibili le rivelazioni di Scarantino. Neppure dubitò dopo la sua ritrattazione che, disse, “ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni”. “Nei primi interrogatori abbiamo ritenuto che le dichiarazioni di Scarantino fossero genuine. Solo dopo abbiamo intuito che fossero inquinate”, spiegò Di Matteo citato come testimone al Borsellino quater. Eppure un campanello d’allarme era già suonato per via di quelle sovrapposizioni temporali fra i processi. La Corte d’assise del Borsellino ter, presieduta da Carmelo Zuccaro, oggi procuratore generale di Catania, parlò di “parto della fantasia” riferendosi al racconto di Scarantino. Un giudizio che non scalfì le convinzioni dei pubblici ministeri che proposero appello e fecero condannare gli innocenti scagionati dopo anni di carcere.
 
Il ruolo in generale della magistratura, quanto meno collettivamente distratta, e la posizione di Di Matteo in particolare hanno provocato una profonda spaccatura tra i familiari di Paolo Borsellino. Sono saliti, loro malgrado, sulla giostra ma con prospettive diverse. Di dura critica i figli Fiammetta, Lucia e Manfredi. Di difesa accorata il fratello del magistrato, Salvatore. Fiammetta sul caso Scarantino disse: “Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…”. Tutti componenti di “quell’efficientissimo team di magistrati”. Parole di certo non pronunciate con tono lusinghiero. L’attacco al dogma dell’infallibilità della magistratura segnò uno spartiacque. Le parole non potevano essere tenute nascoste. Rimbalzarono sui media, anche quelli abituati a non solleticare le procure. I Borsellino hanno cambiato l’inerzia della giostra. Non si sono mossi in maniera compatta, però. Dolore comune, reazione diversa. I figli, disertando le passerelle delle commemorazioni, hanno obbligato la magistratura ad assumersi le proprie responsabilità, a guardarsi dentro piuttosto che cercare sempre e solo nemici all’esterno. Posizione non gradita allo zio Salvatore che ha fatto della militanza un tratto distintivo. Sempre al fianco dei magistrati con il movimento delle Agende rosse, anche quando quando i pubblici ministeri si lasciavano condurre per mano nei sentieri della vivida immaginazione di Massimo Ciancimino. Storico è rimasto l’abbraccio fra Salvatore Borsellino e Ciancimino jr in via D’Amelio.
 
L’ultima spaccatura, la più evidente, si è consumata al processo di Caltanissetta sul depistaggio quando l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia e costituito parte civile per i familiari, ha elencato nella sua arringa i nomi di Palma, Petralia, Di Matteo e anche di Roberto Scarpinato. Credettero alle menzogne dei collaboratori di giustizia e non svilupparono l’indagine “mafia e appalti” al quale stava lavorando Borsellino e dietro cui potrebbe nascondersi il vero movente della strage. Salvatore Borsellino e il suo legale, Fabio Repici, hanno preso le distanze. Trizzino anche di recente ha rilanciato il suo pensiero. Non c’è una verità trentuno anni dopo anche perché la magistratura l’ha cercata nel posto sbagliato, imbastendo ad esempio il processo sulla Trattativa. Si è spinta a sostenere, senza averne le prove, che l’eccidio di via D’Amelio subì un’accelerazione perché Borsellino aveva smascherato la Trattativa portata avanti dagli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno. Gli stessi che sono stati processati e assolti e con i quali, ed è una prova della fiducia che su di loro riponeva, Borsellino si incontrò prima di morire. In ballo c’era l’indagine su mafia e appalti, in gran parte archiviata e certamente trascurata. Un gruppo di potere composto da imprenditori, politici e mafiosi decidevano gli appalti e si spartivano i soldi. Su quella indagine Mori, con l’allora giovane capitano De Donno, tra il 1990 e l’inizio del 1991, lavorò per mesi, ma la Trattativa è stato l’unico faro investigativo. Accecante fino al punto da oscurare ogni ipotesi alternativa. Si sa, la fuffa è più affascinante della sostanza. Riempire di suggestioni le aule è la strada verso l’olimpo della magistratura. Non serve “vincere” i processi, le carriere si costruiscono e si puntellano inseguendo i massimi sistemi.
 
Si è preferito insistere sugli errori del passato. Sulla giostra sono stati accolti a braccia aperte e coccolati nuovi collaboratori di giustizia strampalati dai ricordi confusi e tardivi. Come il catanese Maurizio Avola, killer di 80 omicidi, l’ultimo a iscriversi nella lunga lista degli attori di una sceneggiatura infinita. Avola ha raccontato di avere piazzato con le sue mani il tritolo nella Fiat 126 parcheggiata e fatta esplodere sotto l’abitazione del magistrato. Una descrizione dettagliata, la sua: i candelotti erano una dozzina, del peso di circa un chilo ciascuno, la miccia fu messa in un modo e il detonatore attivato in un altro. La Procura di Caltanissetta si sentì obbligata a diramare una nota per spiegare che Avola si era inventato tutto. Come il messinese Carmelo D’Amico che ha raccontato di avere saputo che “Andreotti, con altri politici, e i servizi segreti sono i mandanti delle stragi del ‘92, di Capaci e di via D’Amelio”. Glielo aveva riferito in carcere il potente capomafia palermitano Nino Rotolo. Ne raccolse le confidenze tra il 2012 e il 2014. D’Amico aveva tagliato fuori l’argomento dai suoi verbali per paura di essere ammazzato in carcere dai servizi segreti. Come il calabrese Nino Lo Giudice che ci ha messo anni prima di rivelare che a fare saltare in aria il giudice Borsellino sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello, soprannominato “faccia da mostro” per via di una ferita al volto, misterioso fra i misteriosi servitori infedeli dello stato e ormai deceduto.
 
Ricostruzioni che sovvertono le certezze giudiziarie finora raggiunte. Voci smentite e altre impossibili da verificare che hanno contribuito ad affollare la giostra, che è anche mediatica, con le figure degli scrittori e dei mattatori dei talk-show. Le dichiarazioni di Avola sono finite nel libro “Nient’altro che la verità” che segnò il ritorno sulla scena di Michele Santoro. Se non si fa un giro sulla giostra si resta ai margini. Chiunque vuole dire la sua. Prendete un vecchio pentito come Gaspare Mutolo, che dal salotto di Massimo Giletti teorizzava, lui che è fuori dalla mafia da decenni, che c’è “un terzo livello che comanda e ha comandato sempre”. E tornò a parlare dell’incontro che ebbe nel luglio 1992 in gran segreto, a Roma, con Paolo Borsellino. Il magistrato ricevette una telefonata e dovette precipitarsi dal ministro dell’Interno Nicola Mancino. Lo stesso Mancino tirato con forza dalla Procura di Palermo dentro il processo sulla Trattativa con l’accusa di avere mentito. I pm chiesero la sua condanna a sei anni, salvo poi non appellare l’assoluzione decisa dai giudici di primo grado che scagionarono Mancino. Borsellino tornò dall’incontro ed era infuriato. Per calmarsi dovette “fumarsi due sigarette insieme”. Poi fece una confidenza al pentito che gli stava seduto di fronte: “Mi disse di avere incontrato, fuori dalla stanza del ministro, Bruno Contrada (ex numero tre del Sisde) e l’ex capo della polizia Vincenzo Parisi. Contrada mostrò di sapere dell’interrogatorio in corso con me che doveva essere segretissimo. Gli disse: ‘So che è con Mutolo, me lo saluti’”. Nei corsi e ricorsi storici l’abbraccio con Salvatore Borsellino ha accreditato Mutolo facendo breccia su una parte dell’opinione pubblica. Un film già visto con Massimo Ciancimino.
 
Ci ha provato ad accreditarsi con i passaggi in tv anche Salvatore Baiardo, un tempo favoreggiatore dei fratelli Graviano, boss di Brancaccio. “Report”, “Non è l’Arena” e “Atlantide” hanno dato risalto alle sue rivelazioni. Uno dei momenti più alti si è registrato quando si è spinto a sostenere che in circolazione ci siano più copie dell’agenda rossa trafugata dalla borsa di Borsellino il giorno dell’attentato. L’agenda dei misteri è tornata a riempire le cronache attuali affollando la presenza sulla giostra degli uomini in divisa. Sono spuntati cinque poliziotti a riferire – dopo tre decenni – che l’agenda è finita nella stanza di La Barbera alla squadra mobile di Palermo. Per anni il dito è stato puntato sul carabiniere Giovanni Arcangioli. La foto che lo ritraeva con la borsa in via D’Amelio è stata a lungo la prova della sua colpevolezza nonostante l’inchiesta a suo carico fosse stata archiviata. C’è un dettaglio: il carabiniere aveva rinunciato alla prescrizione.
 
Il nuovo giro di interrogatori, avvenuto lo scorso novembre, ha impresso uno scossone alla giostra. Il poliziotto Armando Infantino ha raccontato che tenne in mano la borsa di Borsellino. Arrivò in via D’Amelio poco dopo l’esplosione. Caos, fumo, corpi a brandelli. L’unico superstite, Antonino Vullo, “aveva ancora la pistola in mano, era in stato confusionale: diceva che i suoi colleghi erano entrati nella portineria. Ma in realtà erano tutti morti”. Infantino ricorda il punto esatto. Non lo ha dimenticato perché “la consegna della borsa del magistrato da parte del militare è avvenuta poco più avanti della vettura sotto la quale è stato rinvenuto il corpo della collega Emanuela Loi”. Arcangioli passò la borsa al collega Giuseppe Lo Presti, il quale ha aggiunto che la borsa era “vicino al corpo di Borsellino. Dissi a Infantino di custodirla”. Il poliziotto Nicolò Manzella ha confermato. La borsa fu sistemata nella macchina di Francesco Maggi che la portò nella stanza di La Barbera.
 
Per decenni è stato considerato un super poliziotto, osannato e incensato. Di lui si era fidato anche Giovanni Falcone, affidandogli le indagini sul fallito attentato all’Addaura. Da qualche tempo La Barbera, ormai deceduto, è considerato il depistatore. Un depistaggio frutto della necessità di trovare in fretta un colpevole per le stragi o c’è del marcio sotto? Gli investigatori sono andati a cercare l’agenda rossa a casa della moglie e della figlia. Nessuna traccia, nonostante il racconto di un nuovo e recente testimone. Ha saputo da sua figlia, amica della figlia di La Barbera, che l’agenda rossa è ben custodita. Sono andati a cercarla persino nella sede dei servizi segreti dove La Barbera avrebbe piazzato a lavorare la figlia usando l’agenda rossa come arma di ricatto. Una spy story, insomma. All’orizzonte c’è un nuovo processo. Sulla giostra bisogna fare posto a nuovi poliziotti che presto si troveranno nella scomoda posizione di imputati. Le deposizioni di quattro agenti – Maurizio Zerilli, Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi e Angelo Tedesco – del gruppo Falcone e Borsellino non hanno convinto. Troppi non ricordo che, secondo l’accusa, non sono giustificabili con il trascorrere del tempo ma coprirebbero le malefatte di La Barbera.
 
Sempre che le cose siano andate veramente come si ipotizza. Ci sono ricordi che propongono un’altra ipotesi. Il magistrato Salvatore Pilato, pm di turno il giorno dell’attentato, ha rivelato a Vincenzo Ceruso nel libro “La strage. L’agenda rossa di Paolo Borsellino e i depistaggi di via d’Amelio” che “la mattina del 20 luglio, quando arrivai in procura, mi dissero che l’agenda rossa era nella stanza del collega assassinato, a cui erano stati apposti i sigilli dai magistrati di Caltanissetta”.
 
Sull’agenda rossa ha detto la sua anche Luigi Patronaggio, pm con Falcone e Borsellino e oggi procuratore generale a Cagliari: “Su che fine abbia fatto con tutta onestà non lo so. Confermo invece che l’ufficio di Borsellino fu sigillato nella immediatezza della strage e che i colleghi di Caltanissetta procedettero ad un inventario. Se fra quelle carte vi fosse proprio l’agenda rossa tuttavia lo ignoro”.
 
Parole pronunciate davanti alla Commissione parlamentare antimafia, il più attivo dei tribunali paralleli. Se la gioca con gli show televisivi. Le relazioni consegnate al Parlamento finiscono per sovrapporsi al lavoro delle procure. Prima sotto le presidenze di Rosy Bindi e Nicola Morra e ora di Chiara Colosimo le audizioni si susseguono, accompagnate da un fenomeno: la desecratazione delle audizioni del passato. In concomitanza con l’anniversario delle stragi i commissari annunciano urbi et orbi la pubblicazione di verbali e audio che hanno un esclusivo, anche se autorevole, valore storiografico. Se l’ascolto fosse utile anche dal punto di vista investigativo non si comprenderebbe perché mai siano rimasti sepolti per anni sotto la polvere. Basta una frase, però, un dettaglio delle lontane audizioni per lanciarsi in nuove congetture. Benzina che alimenta per chissà quanto tempo ancora la giostra. Più si avanti e più la memoria si offusca e si fanno avanti gli avventurieri. Alcuni davvero improbabili. C’è una storia surreale che fotografa lo stato dell’arte. Una donna, a Siracusa, si è finta cugina di Paolo Borsellino. Attorno alla signora Giuseppa è iniziato il circo della legalità. Inviti e riconoscimenti. C’è persino chi l’ha voluta accanto a sé in campagna elettorale per le elezioni locali e chi relatrice ai convegni assieme ai più alti rappresentanti delle forze dell’ordine. Accolta tra gli applausi scroscianti e invitata alle manifestazioni al pari di Salvatore Borsellino. Era un’impostura. Almeno nel suo caso il giro sulla giostra è durato poco.

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