(foto Ansa)

roma capoccia

I romani non sono fatalisti, chi li governa (assai male) invece sì

Andrea Venanzoni

L’adagio sull’inerzia antropologica del romano è una stupidaggine che però si adatta allo stile della politica

"Amico, sei nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Non lo dice il servizio informazioni del trasporto pubblico capitolino, ma uno dei protagonisti di “Vivere e morire a Los Angeles”, robusto hard-boiled cinematografico di William Friedkin. Film contraddistinto da ambientazioni rugginose e da riprese spesso ferme al primo ciak, granuloso, sporco, grondante di un maleodorante fatalismo, di inerzia, di stasi. Si parla, spesso e forse anche a sproposito, del fatalismo dei romani, quasi fosse connotazione geneticamente inscritta nelle vene e nelle carni di un popolo che mutevole nel corso dei millenni è più volte camaleonticamente cambiato; il romano, si dice, accetta tutto, silente, serafico, borbottante magari lungo le code serpentine davanti gli uffici anagrafici per farsi rinnovare, mesi dopo la scadenza, la carta di identità, o rumoreggia su banchine ostruite da esistenze accelerate, ma alla fine, fatalisticamente appunto, si rinserra nelle spalle e si dice che le cose stanno così, vanno male e forse sono sempre andate male e che non si riesce a cambiare nulla.

 

“Tanto siamo a Roma”. Il mantra che tutto copre e tutto assolve. Quello del fatalismo è in realtà uno dei tanti luoghi comuni che agitano i sonni degli osservatori, i quali si chiedono come sia possibile vedersi transitare davanti tre convogli della metro, saturi come il ventre rigonfio di un demone dipinto da Bosch, con frequenze geologiche, o le stazioni taxi abbandonate e i centralini che vengono chiamati soltanto per rinfrancarsi con le musichette, le strade ingombre di cantieri dentro cui non lavora mai nessuno, e i nastri arancio che si fondono in una sorta di Palio con i nastri gialli della polizia locale e con le transenne degli uffici tecnici o quelle bianco-rosse dei Vigili del Fuoco. Come è mai possibile, si chiedono i novelli Lévi-Strauss caduti per caso a Piramide o i Malinowski in transito alla stazione Termini mentre attendono che all’orizzonte compaia la Fenice bianca con su la scritta redentrice “taxi”, che i romani non strillino, non imprechino, non scendano per strada invocando la rivoluzione?  Come può mai darsi che il “sindaco”, qualunque sindaco ormai invariabilmente indicato come peggiore rispetto il fu-peggiore precedente, sia stato votato? Ma cosa mai avevano nella testa questi romani che han mandato in Campidoglio una amministrazione che attende la riapertura delle scuole per punteggiare di cantieri le strade, rendendo impossibile la vita dei cittadini? 

 

In “Vivere e morire a Los Angeles”, i protagonisti facevano una scelta; radicale, furiosa, e ne pagavano il prezzo. Nelle sorde viscere screziate di polvere e metallo di L.A., si davano a una caccia all’uomo spietata, per reclamare una giustizia che nessuno avrebbe potuto dar loro. A Roma però non si vive, si muore solo. “Morire a Roma” è il fatalistico grido ontologico dell’istituzione scapestrata, non dei suoi cittadini: l’istituzione dalla natura incerta, irrisolta, in cui tutto è caos, ma non il caos alla Feyerabend, il caos invece gorgogliante che rende più semplice raggiungere Firenze piuttosto che il quartiere limitrofo. Qui non è data scelta. La politica stessa lo sa bene. Finge di darsi alle schermaglie, alle piccole polemiche, piccole polemiche su aiuole o fontanelle in una città in cui non funziona nulla e le opere o vengono annullate oppure prorogate sine die, in un cantiere eterno che scorre parallelo ai millenni. Doveva essere Capitale e invece è solo tragica provincia di sé, periferia eterna in cui le rovine non sono più quelle imperiali ma quelle dei servizi disfunzionali, dei mezzi pubblici che non passano mai, dei rifiuti accatastati, dei gabbiani che volteggiano sinuosi come i fili tessuti dalle Parche. Cosa ne è dell’ordinamento di Roma, della sua costituzionalmente riconosciuta specialità?  Si continua con le dazioni, inutili e vuote, di fondi pubblici senza aver modellato una governance evoluta e al passo coi tempi, per nettarsi la coscienza e nulla risolvere. Il fatalismo, spocchioso, irritante, è quello della politica, non quello dei cittadini esasperati che non hanno più alcuna alternativa.

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