Eugenio Scalfari. Foto LaPresse/Fabio Cimaglia

Scalfari e il Papa

La Gran Sottana

Gran interrogarsi tra monsignori intorno alle conversazioni di Francesco con il fondatore di Rep.

Davanti al negozio bengalese di via di Porta Angelica l’altro giorno era un gran ridere e interrogarsi tra monsignori sulla surreale conversazione tra il Santo Padre Francesco e l’augusto interlocutore prediletto, Eugenio Scalfari. “Mò siamo a che Gesù è diventato Dio solo quando è morto”, diceva un giovane in clergy con sobrio occhiale da sole Ray-Ban, commentando il dialogo tra i due. E l’altro, meno giovane e con trolley, ridacchiava profetizzando l’Apocalisse e forse, chissà, pure le paganissime Valchirie arrivare sul cupolone di San Pietro. Il mio cicerone, un vescovo vestito non da vescovo tanto da sembrare un turista bielorusso a Fontana di Trevi, mi diceva che il problema di questi romani (dove per romani si intende la variegata galassia dei nostalgici chierici del tempo che fu) è che non capiscono che la reale rivoluzione portata da Bergoglio è proprio questa, e cioè bere succhi di frutta non troppo freddi – il frigobar nella suite papale è ben fornita, non si sa però se ci sono ancora le Kinder Delice ivi riposte all’inizio del pontificato – con miscredenti e mangiapreti. Qualcuno dice perché l’istinto predatorio gesuita fa sì che si cerchi di convertire l’anima dell’ateo prima che sia troppo tardi, altri più modestamente sostengono che semplicemente al Papa attuale piacciono i tipi come Scalfari, senza troppi complessi da sacrestia, senza quell’aria da cattolicone che tutto dice di sapere di dottrina e morale e pastorale. Meglio ateo, insomma, che cattolico adulto. “Non si sa però cosa sia peggio”, aggiungeva serissimo il vescovo mio amico.

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