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referendum
I voti contro il quesito sulla cittadinanza sono di sinistra. Il Pd lo capirà?
Se Elly Schlein si attribuisce tutti i votanti, deve tener conto che un terzo di loro ha bocciato il dimezzamento dei tempi per ottenere la cittadinanza italiana. Smaltita la sbornia, sarebbe ora di avviare un ragionamento costruttivo a sinistra
Il risultato del referendum, più negativo per i promotori di quanto fosse prevedibile, dovrebbe essere esaminato con attenzione soprattutto dalla sinistra, se intende diventare un’alternativa e non solo un raccordo tra le proteste. I primi commenti, che sostengono che la sconfitta è in realtà una vittoria e che gli elettori avrebbero mandato un “avviso di sfratto” a Giorgia Meloni, fanno cadere le braccia. Si può capire l’intenzione di rincuorare un elettorato deluso, ma quando si esagera nel negare — anzi, nel capovolgere — la realtà, si rischia di ottenere l’effetto opposto.
I temi seri su cui riflettere, invece, non mancano. Per quanto riguarda i quesiti sul lavoro, che puntavano peraltro ad abrogare una legge elaborata e votata dal Pd, Elly Schlein dovrebbe ragionare sulla sua convinzione che il partito abbia fatto bene a cambiare linea dopo dieci anni, e per questo abbia affiancato e sostenuto la campagna di Maurizio Landini. Al di là del merito dei quesiti, c’è un problema di comprensione delle tendenze economiche e dell’assetto produttivo, che ha soprattutto un problema di produttività — che non significa necessariamente peggioramento delle condizioni di lavoro, ma implica soprattutto una politica industriale, una certezza giuridica nel settore civile, tutti terreni sui quali il centrodestra balbetta.
Una sinistra alternativa deve in primo luogo offrire una proposta riformista che affronti i problemi del lavoro e della produzione per quello che sono oggi, invece di rifugiarsi in un’impossibile inversione delle scelte del passato. L’idea che i voti dei partecipanti al referendum si traducano automaticamente in voti di opposizione, e che quindi il referendum sia stato una prova generale delle elezioni politiche superata con successo, è non solo infondata ma anche un modo per rinviare ancora una volta una discussione seria sul programma economico di una possibile coalizione alternativa al centrodestra.
Sul quinto referendum, quello per la riduzione dei tempi per l’acquisizione della cittadinanza da parte degli immigrati, il problema posto alla sinistra è ancora più stringente. Se Elly Schlein si attribuisce tutti i votanti, deve tener conto che un terzo di loro ha bocciato il quesito, il che significherebbe che una parte tutt’altro che trascurabile del suo elettorato non condivide la linea di favorire l’immigrazione anche illegale. Si fa presto a parlare di “guerra tra i poveri”, ma bisogna capirne le ragioni. E per farlo sarebbe utile fare una passeggiata nelle periferie delle città industriali, invece di accontentarsi delle più confortevoli zone a traffico limitato in cui il Pd ha le sue roccaforti.
L’integrazione degli immigrati è un tema complesso in tutte le società occidentali, che innesca tensioni e conflitti ben più gravi in paesi come la Francia o gli Stati Uniti rispetto all’Italia. Mettere in campo proposte equilibrate, che trovino il consenso anche delle fasce popolari, per un’integrazione che sia vantaggiosa per tutti, non è affatto semplice. E l’idea di ridurla a un quesito referendario si è dimostrata doppiamente fallimentare.
Ora, smaltita la sbornia, ci sarebbe il tempo per imparare la lezione e avviare un ragionamento costruttivo a sinistra. Ma c’è poco da sperarci.