Giovanni Toti - foto LaPresse

L'editoriale del direttore

Finanziare la politica è un reato? Toti e l'elefante nella stanza nel rapporto tra politici e quattrini

Claudio Cerasa

Il cedimento di un paese che ha trasformato in un crimine il finanziamento alla politica. Andare oltre il caso della Liguria e guardare l'incoerenza della battaglia anti-casta

Il caso clamoroso dell’arresto del governatore ligure Giovanni Toti può essere analizzato, a bocce ferme, seguendo due chiavi di lettura diverse.

Una prima chiave di lettura riguarda la sfera dei fatti, all’interno della quale al momento esiste solo una versione: quella dell’accusa. Accanto alla sfera dei fatti, ce n’è una altrettanto interessante che riguarda la presenza, ancora una volta, di un grande elefante nella stanza, che potremmo sintetizzare con una domanda: quali sono i confini nei rapporti tra la politica e i suoi finanziatori? Giovanni Toti è accusato di aver commesso alcuni fatti illeciti per aver azionato le leve della macchina amministrativa della regione seguendo una modalità così sintetizzata dall’accusa: tu, imprenditore, sostieni finanziariamente la mia campagna elettorale e io, governatore, mi attivo per risolvere i tuoi problemi. E’ possibile che sia andata così. Ma è impossibile non porsi attorno a questo tema una domanda naturale: esiste un criterio oggettivo con cui si può considerare illecito il rapporto tra un privato che finanzia un amministratore e un amministratore che compie un atto di cui può beneficiare il privato che lo ha finanziato? Complicato. Piccolo passo indietro per capire da dove siamo partiti. Nel 2014, travolti dall’onda populista dei partiti anti casta, i partiti cosiddetti anti casta accettarono di rivedere i meccanismi che si trovano dietro al finanziamento pubblico della politica. Con una mano si tagliò il finanziamento pubblico ai partiti (oggi esiste il 2 per mille) e con l’altra mano si scelse di offrire al potere giudiziario un arsenale di strumenti utili a trasformare ciò che si era scelto di incentivare, ovvero il finanziamento privato ai partiti, in un veicolo di malaffare. Il punto è sempre quello: finanziare la politica è immorale, la vera politica onesta non costa, la politica deve trovare modi diversi dall’erogazione di fondi pubblici per funzionare ma se la politica attira interessi è evidente che dietro c’è un marcio da denunciare. Ma si può considerare davvero uno scandalo che chi finanzia la politica si aspetti di avere un rapporto di interlocuzione, anche di raccomandazione, con il politico che ha finanziato? E si può davvero sostenere che chi finanzia la politica non debba far pesare i propri interessi nelle interlocuzioni con il politico che ha finanziato? E se esiste una legge che impone la trasparenza a coloro che finanziano la politica, un politico si comporta a norma di legge solo se si preoccupa di non offrire a chi lo ha finanziato nessun beneficio diretto o indiretto? La logica è chiara ma è messa a dura prova da un complesso reticolato di leggi che offre ai magistrati la possibilità di considerare come una pratica corruttiva anche un atto che prevede la ricezione sospetta di denaro, anche indirettamente, durante l’esercizio della propria funzione.

E’ la vecchia corruzione impropria: il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da tre a otto anni. Ma quando i soldi arrivano al proprio partito i confini quali diventano? Ed esiste un modo oggettivo per considerare illecito un pagamento trasparente a un partito? E’ sufficiente dimostrare che quel pagamento è avvenuto dopo un favore teoricamente ricevuto? Nel 2019, la Cassazione, ai tempi di un’inchiesta sullo stadio della Roma, scelse di intervenire sul tema, scelse di offrire spunti utili per ragionare attorno a un rischio. 
Rischio che era  la “pressoché automatica criminalizzazione del livello di interlocuzione politica tra un imprenditore, interessato a un progetto di ampio respiro e notevole esborso economico, ed un soggetto appartenente alla maggioranza politica che dovrà valutare il progetto medesimo”. Sintesi: non è sufficiente, per identificare un patto corruttivo, la semplice contemporaneità degli atti politico-amministrativi con le dazioni o le promesse.  Il caso Toti, da questo punto di vista, offre qualche elemento di riflessione in più, più interessante del tema legato alla giustizia a orologeria. Domanda: ma se un finanziatore del tuo partito trae un beneficio da un atto, da un permesso, da una concessione dovuta, siamo sicuri che possa considerarsi come favorito dal politico che ha finanziato? E se si accetta che un presidente di regione possa essere arrestato perché si è prodigato per fare in modo che alcuni ostacoli, in una certa pratica, siano rimossi, quanto ci vorrà prima che vengano considerati come complici del soggetto politico i funzionari, gli organi di controllo, gli enti che si sono dovuti esprimere su ognuna di quelle pratiche?

Negli Stati Uniti, dove il finanziamento privato governa l’attività politica dei partiti, sapere che un candidato, un politico, un governatore, un presidente è vicino a un certo gruppo di interessi è considerato come la normalità, non è uno scandalo, e questo capita perché alla base del sistema giuridico e politico americano vi è l’idea che la politica sia legittimata a governare gli interessi, a comunicare con i portatori di interessi e in alcuni casi anche a premiare i portatori di interesse che hanno contribuito all’ascesa di un politico: basta farlo in trasparenza. In Italia, grazie ad anni di propaganda anti casta, esiste un grumo patologico, perverso, formato da populisti cialtroni, anti populisti allo sbaraglio, magistrati d’assalto, opinione pubblica stordita che ha scelto da anni di sposare in modo acritico l’idea secondo cui il politico onesto è solo quello che fa politica senza soldi, senza finanziamenti, senza interessi che lo possano condizionare. Risultato: la politica si è impoverita, i politici compatibili con lo spirito del tempo sono solo quelli che hanno risorse personali abbondanti, la tentazione di ricorrere a forme di finanziamento occulto è cresciuta e gli unici legittimati a fare politica sono nel migliore dei casi i magistrati e nel peggiore dei casi i partiti incapaci di ribellarsi all’attivismo delle procure.  Il disegno politico e giudiziario da mettere a fuoco oggi non è dunque quello che riguarda il governatore Toti ma è quello che riguarda un tema più importante: accettare o no  che in nome della battaglia anti casta si continui a trasformare il mestiere della politica in un reato, a trasformare il finanziamento alla politica in un crimine, a trasformare il populismo anti casta nell’unico vettore compatibile con l’agenda della gogna e con la politica dello scalpo. L’elefante è nella stanza. Una volta finita l’indignazione, qualcuno avrà o no voglia di guardarlo?

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.