I miei primi 30 anni

Antonio Tajani, delfino. Colloquio a bordo piscina

Michele Masneri

L’infanzia a Parigi, la famiglia piemontese e quella parentela con il generale Badoglio. E ancora gli esordi da giornalista, e la lunga carriera in Europa. A trent’anni dal 1994, a pranzo con il successore del Cav.

Siamo al Circolo degli Esteri, forse il più chic di quegli avamposti fondamentali a Roma, dove le élite si ritrovano a seconda del censo e della casta, mentre scorre giallo e placido il Gange, pardon il Tevere. Passano degli ambasciatori e delle signore di ambasciatori, che stanno a chiacchierare e a guardare il robottino che pulisce la piscina. Siamo in “Youth” di Sorrentino ma anche in “Kaputt” quando Malaparte descrive gli svaghi dei diplomatici italiani mentre incombe la Seconda guerra mondiale. Il circolo Mae fu fondato nel ’37 da Galeazzo Ciano, del resto. Oggi, primavera quasi estate, eccoci qui con Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri, capo di Forza Italia e ragazzo prodigio, a settant’anni compiuti, della politica italiana

    
Mentre si celebrano i 30 della gloriosa discesa in campo, e a quasi un anno dalla morte del Cav., lui è fresco di vittoria (dieci per cento alle regionali in Abruzzo) e punta più in alto, e soprattutto ha realizzato l’irrealizzabile: è riuscito a essere quello che molti volevano, il delfino di Berlusconi. Tajani è delfino tonnato, marinato in Europa da trent’anni esatti, e oggi in formissima mentre tutti gli altri contendenti hanno rinunciato all’impresa (Fini, Alfano, Frattini, Casini, la lista è interminabile). Lui invece eccolo guizzante e immarcescibile e oltretutto con una certa gravitas data dalla lunga marcia in Europa. Ha l’energia di un ragazzo ma l’esperienza di un uomo, come l’Alberto Sordi dei “Complessi”. 

   

Lui però complessi non ne ha, Tajani con la j è sempre perfetto, giacca blu, cravatta a piccoli disegni, pantalone grigio. E’ berlusconiano prima di Berlusconi. “Io lavoravo al Giornale, ed ero abituato alle chiamate di Paolo, il nostro editore, così quando mi dissero ‘c’è Berlusconi al telefono’ risposi: ‘pronto, Paolo!’, ‘No, sono Silvio’, e lì cominciò tutto”, dice Tajani mentre mangiamo a bordo piscina. Comincia un trentennio di viaggi ad Arcore e pastasciutte tricolori ma soprattutto un periodo “far away so close”, perché Tajani c’è e non c’è: candidato vincente alle gloriose elezioni del 1994, l’esito viene annullato per “irregolarità formali”, e lui, dopo una breve parentesi come portavoce di Berlusconi premier, subito riciccia in Europa, dove rimarrà per sempre. Esiliato speciale, farà un carrierone pazzesco, due volte commissario, presidente del Parlamento. Nel 2001 ci riprova, a tornare a Roma, corre da sindaco, ha quasi vinto, ma niente, battuto da Veltroni al ballottaggio. “E’ stato un bene”, dice oggi davanti a un calice di vino bianco e al sottopiatto silverplate con lo stemma del circolo mentre passano diplomatici (“Omaggi ambasciatore!”, “Ciao Ministro!”). Ma allora disse invece: “Prendo atto della tendenza”, e in questo c’è tutto Tajani, misuratore di parole nell’abito su misura, con cui forse è nato, non esistono infatti foto di lui senza cravatta o addirittura giacca, anche se ne esibisce una (la usa come profilo di WhatsApp), “guardi, guardi”, in cui è addirittura scapigliato, con borsa di Tolfa e barba, ma è chiaramente taroccata, altro che principessa Kate. Lei è l’unico che, invece d’esserne rimproverato, avrebbe potuto rimproverare Berlusconi per la trasandatezza. “Ma lui andava da Caraceni, io ho un sarto molisano”, dice Tajani, precisando, “non sono un uomo ricco”,  guardingo.

 

E di nuovo ecco l’understatement che gli è proprio e che gli ha permesso non solo di diventarlo, delfino, ma di far fallire tutti gli altri. Ordine, disciplina e monopetto, quand’era cronista al Giornale la definivano “la caposala”, perché era un po’ precisino, mentre gli altri suoi colleghi erano casinari. Tajani non muove un muscolo, poi, dopo una pausa infinita, riflette. “Ci vuole rispetto, se vai in parlamento vai in giacca e cravatta”. Giornalista prima al Settimanale poi al Gr1 (“me ne andai perché alla Rai facevano il tesseramento del partito comunista”) e poi al Giornale di Montanelli, capo della redazione romana, Piazza di Pietra. Giancarlo Perna ha scritto che lei era un giornalista emingueiano.  “Mah, non so. Fumavo molto, Marlboro rosse. La vita di redazione era bellissima”. La rimpiange? “Mai. A me piace fare quello che faccio al momento, non ho mai rimpianti. Però certo la passione è rimasta. Una volta a Bruxelles chiudemmo un accordo sul canale di Panama e il mio capo di gabinetto disse: adesso teniamo la notizia riservata. Io invece avevo già convocato una conferenza stampa, il senso della notizia mi è rimasto”. Poi, dopo l’entusiasmo momentaneo, si riaccuccia nel suo completo. Tajani più che delfino sembra quei pesci che si mimetizzano nei fondali marini e quando meno te l’aspetti zac. Di sicuro da caposala è riuscito a far fuori l’infermiera Licia Ronzulli e tutti gli altri pesci piloti di Forza Italia che si sono cimentati nell’impresa di diventare i successori di Berlusconi. “Con lui non dovevi mai pensare di essere un numero uno. Ma a me va benissimo essere un numero due”, dice, e tutti concordano che la sua forza sia quella, un’enorme consapevolezza dei suoi limiti: le ambizioni,  sa tenerle nascostissime.  

  
Altri soprannomi: granduca di Ciociaria, perché lì ha la sua base elettorale e i suoi natali. Come Lollobrigida, dico. Il pesce delfino alza lo sguardo. “Lollobrigida è di Alatri, provincia di Roma. Io sono di Ferentino”. Riabbassa lo sguardo sul prosciutto. Altri soprannomi: Al-Tajani. Lui, zitto. Poi appoggia la forchetta. “Al-Tijani era un famoso profeta dell’Africa nera. E i Tijani sono una corrente filosofica molto importante nell’islam. Corrente moderata”. Perfetto! E poi: “qualcuno mi chiamava anche ‘Intajana Jones’ quando facevo l’inviato”, sibila serissimo, con l’ironia dei romani che hanno viaggiato. Da Ferentino ad Arcore, è riuscito a stare vicino al sole alla giusta distanza, senza scottarsi, visto che il passatempo preferito (oddio, forse il secondo) del Cav. era illudere e poi bruciare i suoi possibili successori. “Berlusconi è stato il contrario del re Sole. Ha lasciato un’eredità politica che oggi è lì, e gli italiani la riconoscono”. Come la spiega questa ondata di successo postumo per Forza Italia? Dieci per cento in Abruzzo, se lo aspettava? “Così no. Ma il venerdì prima, un noto sondaggista mi disse: ora state al 10, ma siete in crescita costante”. Adesso in Basilicata si punta al 15. Com’è possibile? “Gli italiani non sono scappati dopo che Berlusconi è morto, al contrario sono tornati da noi. Un po’ perché mancano alternative, un po’ perché c’è voglia di una forza moderata. Le acque sono burrascose: la guerra, gli attentati… gli italiani sono preoccupati: guardano a persone che non perdono la testa, cercano un comandante che sa cosa fare. Nessun tono roboante, nessuno sbandamento. E il nostro canale di navigazione è tra Meloni e Schlein: perché devo andare a togliere i voti a Salvini?”. Insomma, tutto chiaro, barra al centro e via con la navigazione. Ma lei teme di più Matteo Salvini o Matteo Renzi? “Non temo nessuno. Io non guardo mai gli altri, io guardo quello che faccio io”. Al pesce diventato comandante chiediamo: è esistito mai un altro periodo storico così ansiogeno? “Certo. Mi ricordo la crisi dei missili di Cuba, io avevo meno di dieci anni, mio padre che era ufficiale dell’Esercito era in missione da qualche parte, e chiesi a mia madre, terrorizzato: ma domani scoppia la guerra mondiale? Quella era una situazione molto più pericolosa di oggi. Oggi è tutto enfatizzato dai media. E guardi che io dico media non midia! Sono contro gli inutili anglicismi”. Come Lollobrigida! Mi guarda male. “Io parlo sempre italiano anche in Europa. E’ una delle lingue dell’Unione”.

 

Ma a proposito di ansia, Putin chissà quante volte l’avrà visto, con Berlusconi. “Berlusconi negli ultimi tempi era rimasto molto deluso, lo considerava un uomo di pace, ma è cambiato. Ci era rimasto male anche perché non gli rispondeva più al telefono. Silvio era convinto che la Russia fosse parte dell’Europa, dell’occidente”. Bei tempi. Ha visto palazzo Grazioli tutto ristrutturato e trasformato in coworking minimalista, come sede della Stampa estera? “Eh sì”. Diverso eh? “Eh sì. Tutta un’altra cosa”. E Arcore? Che ne dobbiamo fare di Marta Fascina? Tace. E Pier Silvio, scenderà mai in campo? “Se gli va, perché no”. A queste domande Tajani si è già ri-mimetizzato negli anfratti marini. Ricordi di Arcore? “Avevo un ufficietto, e la mia camera. Eravamo io, Niccolò Querci, Paolo Del Debbio, tutta lì quella che chiamavano la macchina da guerra del Cav. E la segretaria Marinella”. Mi hanno raccontato che ogni volta che tornava da Arcore era stravolto dalla fatica. “Be’, i ritmi di Berlusconi erano pazzeschi. Ma sono i miei ritmi di ora”. Chi altri veniva ad Arcore? “Le zie suore”. Ah le famose zie suore. “Suorine, carine”. Ma proprio vestite da suore? “E come dovevano vestirsi, scusi?”. 

 

   

Torniamo agli Al-Tajani, gloriosa dinastia originaria di Vietri sul Mare. Il pesce delfino mi osserva, sospettoso, poi si butta. “Diego Tajani fu il primo procuratore antimafia d’Italia, procuratore del Re a Palermo a fine Ottocento, Ministro di Grazia e Giustizia dei governi Depretis, e anche avvocato di Garibaldi”. Secondo il sito nobilinapoletani.it il progenitore della stirpe è un cinquecentesco Mattheus Tajanus. “Ah”, dice, moderatamente contento che io abbia studiato. “Sì, è il primo dei Tajani. San Matteo è anche patrono di Salerno”. Per venire a tempi più recenti, suo padre lavorava alla Nato. “Destino, perché anche io feci il militare nella Nato. Controllore della difesa aerea. E oggi la Nato è all’ordine del giorno”. Ma suo padre “aveva fatto l’accademia militare a Torino, e poi era finito in campo di concentramento in India, dove era stato sei anni durante la fine della battaglia di Tobruk nel ‘41: è tornato che sapeva perfettamente l’inglese. Che fai del resto in campo di concentramento? Studi”. Poi, la famiglia si trasferisce a Parigi, dove il nostro, di Tajani, passa i primi 4 anni di vita. La famiglia “era molto credente, anche severa. Mamma professoressa di latino e greco dalle Orsoline. C’era il fatto del figlio unico, siccome tutti dicono che viene su viziato, giù mazzate”. Il complesso del figlio unico. “Sì, ma ce l’avevano loro, non io”. In Francia a scuola, come Vannacci. Anche lei tastava i neri per vedere la consistenza? Il pesce rimane immobile. Che ne pensa di questi militari che diventano opinionisti? “I militari dovrebbero astenersi dall’esprimere le proprie idee politiche. Se vuoi fare politica puoi lasciare l’Esercito. Altrimenti la gente può pensare che quello che dici rappresenti l’intero Esercito. Quando vai in pensione poi puoi dire ciò che vuoi”. A Parigi dove abitavate? “Vicino alla Madeleine, dove c’era la tomba di Luigi XVI. La Francia è il paese a cui sono più legato dopo l’Italia”. In quali altri posti avete vissuto? “Dopo Parigi, Roma e poi Bologna, che mi sembrava piccolissima. A Bologna in prima media avevo una professoressa, la signorina Rosmo, che dette un tema: ‘come avete passato il Natale’, io scrissi che ero stato in Ciociaria dal nonno, e lei quando  riconsegna i temi corretti mi fa: ‘ah, ciociaro, come quelli che chiedono la carità sotto i portici’, confondeva i ciociari con gli zingari, capisce? Questa era l’Italia di quegli anni”. Ma in Ciociaria come c’è finita la nobile stirpe degli Al-Tajani? 

 
“Mia nonna materna veniva da una vecchia famiglia piemontese; insegnava francese e vinse la cattedra appunto a Ferentino. Pensi, dal Piemonte a Ferentino! E si innamorò di mio nonno, un proprietario terriero un po’ impoverito, molto affascinante. Un personaggio, io ero pazzo di lui. Quando è morto è stato uno dei  più grandi dispiaceri della mia vita. Certo era molto severo. Certi sganassoni”. Tramite la famiglia materna, “ambiente liberale monarchico piemontese, juventini”, Tajani finalmente conferma la leggenda che aleggia da anni: è nipote del maresciallo Badoglio. “Certo. Era fratello della mia bisnonna. Lo conobbi poco, morì che ero molto piccolo: abitava ai Parioli, in via Bruxelles”, in quella che oggi è l’ambasciata della Cina (siamo, chiaramente, di nuovo in Malaparte). “Mi ricordo vagamente atmosfere rarefatte, delle abat-jour, delle tapparelle abbassate…” Ma lo sanno i suoi colleghi di Fratelli d’Italia di questa parentela col generale che sostituì Mussolini, il traditore per eccellenza da quelle parti? (anche, un altro successore imprevisto, a pensarci bene).  A Giorgia Meloni chi vuole darle della traditrice della nobile fiamma la chiama proprio “la Badoglia”. Il pesce non risponde. Ma andiamo avanti coi parenti. Da parte di padre c’è Raffaele Guariglia, ministro degli Esteri sempre nel governo Badoglio, e segretario del Partito nazionale monarchico, “che era figlio di una Tajani e fu testimone di nozze di mio padre” (adesso un ambasciatore Guariglia è Segretario generale della Farnesina).  E poi via, in una famigliona molto fedele a casa Savoia. “Il bisnonno piemontese  morì di infarto quando assassinarono re Umberto”. Ah, qui si spiega tutta la passione monarchica di Tajani. Al liceo anzi regio liceo Tasso, di Roma, si dice che lei fosse già appassionato di reali.  “Credevo in Vittorio Emanuele II, per il ruolo che aveva avuto nella unificazione del Paese. Il Risorgimento è da sempre il mio periodo storico preferito, per il resto le vicende monarchiche non è che mi appassionino troppo. Io come tutti i funzionari dello Stato ho giurato fedeltà alla Repubblica”. Dicono che quando faceva il giornalista, in redazione si portava sempre Sergio Boschiero, segretario generale dell’Umi, unione monarchica italiana.  “Be’, non sempre, qualche volta”. Pare che lei tifasse per il ramo Aosta. “Non mi sono mai impicciato”. 

 

Al regio liceo Tasso, la Harvard romana,  il giovane Al-Tajani si presentava col cappottino di loden, e aveva queste passioni risorgimentali mentre fuori impazzava l’aria di rivoluzione, dunque lo menavano.  “Sì, vero”. Pare che Paolo Gentiloni,  specie di suo gemello diverso  (famiglia aristo, frequentatore anche lui del Tasso, poi commissario europeo) assistette a una rissa contro il giovane Tajani senza intervenire. “No, è falso, lui non c’era quel giorno”. Altre botte quando, già giornalista, il deputato fascistissimo del Msi Alfredo Pazzaglia le diede un gran ceffone, e qui esistono varie versioni della vicenda. “Quali versioni?”. Una secondo cui lei aveva scritto che una deputata del Msi aveva una relazione con un sindacalista. L’altra che lui, il Pazzaglia, era sotto sotto un democristiano. “Né l’una né l’altra. Scrissi che aveva zero possibilità di diventare segretario del Msi, e lui mi prese a schiaffi”. Ma la menavano sempre tutti. “Sono una specie di Gandhi”, dice Al- Tajani impassibile. 

 

Il gandhismo in monopetto di Tajani gli ha spianato la strada anche in Europa: tra Bruxelles e Strasburgo è l’italiano che ha più esperienza, due volte commissario, presidente del Parlamento. “L’Europa è stata un bene, non era nei miei piani ma poi mi sono appassionato, è stato un grande amore”. Le piace Bruxelles? “Preferisco Parigi”. Come spiegava l’Italia all’Europa? “Non sempre capivano”. Tra Bruxelles e Strasburgo c’è tutta una mitologia su Tajani: c’è la via intestatagli alle Asturie quando da commissario europeo risolse una complicata crisi economica, c’è la storia meno nota che mi raccontano ed è degna di quei fantastici ministri interpretati da Ugo Tognazzi nella commedia all’Italiana. A un certo punto un pezzo grosso europeo, il segretario generale del Parlamento Klaus Welle, chiede udienza a Tajani e gli propone un piano per riammodernare tutti gli edifici delle istituzioni europee. Costo, tre miliardi. Proposta peregrina, rischiosa, difficile da spiegare agli elettori, insomma la classica patata bollente. Al-Tajani non dice nulla, ma rimanda il pezzo grosso ad altri appuntamenti, che si susseguono, sfinendo l’interlocutore, e dove  Tajani si fa trovare sempre in compagnia di testimoni, e lasciando la porta aperta. Alla fine il piano verrà ridimensionato fino all’inconsistenza. “Bisogna sempre riflettere prima di decidere”, dice lui oggi confermando; insomma lei Tajani è una forza tranquilla. “Sì però in francese, tranquille, che ha un significato più ampio… vuol dire rassicurante… perché tranquillo sa un po’ di sfigato. E poi con quello slogan Mitterrand è diventato presidente”. Ah, ecco, a proposito, ambizioni future? Il pesce si ritrae nel suo fondale. “Ah, ma figuriamoci, vorrei stare un po’ con la mia famiglia, fare il nonno”. Ministro, ma quando uno dice che farà il nonno… “non lo fa mai, lo so”. Adesso Al-Tajani però deve andare. La navigazione è ancora lunga, mentre il robottino  continua inesorabile il suo avanti e indietro, e tutti    stanno a guardare il fondo del mare-piscina.  

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).