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la tolda di comando

Nelle stanze silenziose del potere italiano dove s'annida il deep State

Stefano Cingolani

Chi governa davvero il paese? Giorgia Meloni non ha dubbi: lei per mandato del popolo. Un libro uscito da poco, quello di Luigi Tivelli, lo contesta, non con astratti ragionamenti, ma guardando alla realtà effettiva e ai processi concreti

Chi governa davvero il paese? Giorgia Meloni non ha dubbi: lei per mandato del popolo. Non è ancora un mandato diretto, ma lo sarà se passa la riforma costituzionale, in ogni caso si comporta come se già lo fosse. Siamo sicuri che sia così? Un libro uscito da poco lo contesta, non con astratti ragionamenti, ma guardando alla realtà effettiva e ai processi concreti. Lo ha scritto un alto funzionario pubblico, Luigi Tivelli che è stato consigliere parlamentare della Camera dei deputati, della Presidenza del Consiglio e capo di gabinetto. S’intitola I segreti del potere. Le voci del silenzio (Rai libri, 384 pp.), contiene ritratti e testimonianze di altri civil servants frequentati dall’autore. Il modello interpretativo del fare politica in Italia è la “cicalecciocrazia” alla quale si contrappone la “silenziocrazia”. Ed è nelle stanze e nei corridoi del silenzio che s’annida il deep State al quale si deve il funzionamento delle istituzioni e, di conseguenza, il vero esercizio del potere: capi di gabinetto, direttori generali, vertici degli enti pubblici, dei servizi segreti e di sicurezza, responsabili delle aziende a partecipazione statale.

“Una parte dei protagonisti del libro sono conosciuti anche dal grande pubblico – scrive Tivelli – e, a scadenze obbligate, ma quasi sempre poco frequenti, fanno sentire la loro voce e visione dei problemi all’opinione pubblica”. E’ il caso di Antonio Patuelli, Giampiero Massolo, Paolo Savona e Giuseppe De Rita (uomini del silenzio in senso largo). Un’altra parte sono alti funzionari praticamente sempre silenti rispetto ai media, o che non si concedono mai uscite pubbliche (uomini del silenzio in senso stretto): “Stanno sulla tolda di comando, però si comportano come se fossero ufficiali addetti alle macchine, indispensabili per la navigazione dell’Italia ma sconosciuti alla gran parte dei passeggeri”. Dunque, va esaltato il segreto, il mistero, la manovra dietro le quinte, o, non sia mai, il potere occulto? No, “il tendenziale silenzio favorisce una comunicazione ben più appropriata di quella tipica della nostra classe politica”. E’ piuttosto il comportamento che sfugge alla “smania di parlare o cicaleggiare per cercare di distinguersi ed emergere”. Sergio Mattarella è “un grande uomo del silenzio” che usa come arma, secondo Tivelli il quale passa in rassegna “questa liturgia e questa estetica del silenzio” oggi violata sempre più spesso. 

 

Dopo la fine dei totalitarismi del Novecento è prevalso il paradigma liberal democratico basato sul mandato popolare indiretto, il primato della legge, la divisione dei poteri, i partiti come filtro e canale tra masse e stato. Nei primi due decenni del Duemila invece stiamo assistendo a una sudamericanizzazione crescente che mette in discussione non solo i partiti e i parlamenti, ma anche il modello in cui proprio l’apparato amministrativo tipico del potere legale esercita un ruolo particolarmente importante. Tivelli sottolinea che “da tempo circola una teoria secondo la quale i governi sarebbero non poco condizionati dall’opera e dal funzionamento del deep State, nel quale molte posizioni di responsabilità sono state magari acquisite all’ombra di governi precedenti e di diverso orientamento. Non poco di vero c’è in questa tesi, ed è altrettanto vero che, almeno dal 2011 fino all’avvento del governo Meloni, le infornate di nomine che hanno contribuito a definire le posizioni chiave sono state gestite dalla sinistra o da governi tecnici più condizionati dalla sinistra”. Dopo il gioco dell’egemonia culturale arriva il gioco della egemonia istituzionale? Ma in che cosa è diverso tutto ciò dalla vecchia insuperata lottizzazione? 

A questo punto, non possiamo evitare Max Weber per il quale la burocrazia statale in una democrazia di massa rappresenta la macchina razionale che produce efficienza. I rapporti con il potere politico non sono mai rose e fiori. Sotto la spinta degli interessi degli stessi burocrati, l’apparato può mettere in discussione o in crisi chi guida momentaneamente il governo ed è da molti punti di vista un dilettante rispetto al burocrate. A quel punto emergono leader carismatici i quali, grazie a una investitura plebiscitaria, riprendono il controllo della macchina. Così facendo mettono in discussione non soltanto le “arciconfraternite” dello stato, ma il bilanciamento dei poteri. 

La Prima repubblica era una partitocrazia, poi è prevalso un potere sempre più carismatico con il predominio del leader, tendenza già in nuce negli anni ’80 se si pensa al ruolo di Bettino Craxi, poi sviluppata da Silvio Berlusconi. Con Mani pulite s’è imposta “la repubblica delle toghe”, è arrivato “il tempo della giudicatura” come lo chiamò un giurista e politico francese, Robert Badinter ex ministro della Giustizia, e il magistrato è diventato “vindice contro il tiranno”. Quella rottura non si è più ricomposta. Da allora l’Italia è vissuta in un regime di contraddizione permanente tra i tre poteri dello stato, con il prevalere di volta in volta di quello esecutivo o di quello giudiziario, oscillazione della quale ha fatto le spese il potere del parlamento. Adesso la spinta è a dare una soluzione politica estendendo a macchia d’olio “il sistema delle spoglie dal quale la burocrazia non s’è mai ripresa – scrive Tivelli – L’indebolimento di una parte significativa dei loro vertici ha per un verso creato eccessive sottoposizioni al volere dei ministri o dei partiti di turno, e per altro verso ha generato una forte debolezza rispetto alle lobbies. Le quali, guarda caso – situazione praticamente unica nelle democrazie occidentali – operano nel vuoto normativo, in quanto non ancora disciplinate e regolamentate”. 

 

Con la “politique d’abord” la sovranità popolare finisce preda delle clientele e delle corporazioni (si pensi alla Coldiretti, alla Confindustria, ai sindacati), ma nemmeno il potere dei sapienti, dei tecnici, degli esperti è una soluzione. E allora? Max Weber non ci aiuta a trovare una risposta definitiva, perché secondo lo studioso tedesco tutte queste “opposizioni” all’interno del sistema non sono risolvibili una volta per tutte. A impedire che diventino distruttive scende in campo il pluralismo nemico di ogni egemonia politica, culturale, economica. E’ la conclusione alla quale arriva Tivelli esprimendola con altre parole: “Nella nostra forma di governo parlamentare razionalizzato abbiamo bisogno sia di un governo forte che di un Parlamento forte. Anche se il pendolo del potere pende un po’ troppo dalla parte del governo e sembra che il Parlamento fatichi a trovare un suo vero ubi consistam”. E qui il libro entra nel merito dell’odierno confronto politico. L’autore preferisce una soluzione alla tedesca: potere di nomina e revoca dei ministri al presidente del Consiglio; fiducia parlamentare concessa solo a lui; sfiducia costruttiva come unico strumento per abbattere i governi. “E’ il solo modo per non svilire il ruolo del presidente della Repubblica – scrive Tivelli – la cui compromissione istituzionale avrebbe conseguenze gravissime sul sistema dei poteri e sui nostri meccanismi di checks and balances”. 

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