Giorgia Meloni (foto Ansa)

L'editoriale del direttore

Oltre i voti c'è  di più. Che cosa può imparare Meloni dalla sconfitta in Sardegna

Claudio Cerasa

Direzione, competenza, crescita e complottismi residui. Ecco su cosa dovrebbe riflettere la premier per migliorarsi ed evitare di infilare il governo in un buco nero fatto di litigi, tensioni, implosioni e autolesionismi pericolosi più per l’Italia che per il centrodestra

Giorgia Meloni ha detto ieri di aver fatto gli auguri alla nuova presidente della regione Sardegna, Alessandra Todde. Ha detto furbescamente e senza crederci troppo di essere orgogliosa di ciò che ha fatto la coalizione del centrodestra in regione. E alla fine della sua dichiarazione ha detto saggiamente che la sconfitta subita in Sardegna sarà un’opportunità per riflettere e per provare a migliorarsi.

Già, ma in che senso? E, esattamente, su cosa dovrebbe riflettere Meloni per migliorarsi e per evitare di trasformare il passaggio a vuoto della Sardegna in uno psicodramma in grado di infilare il governo in un buco nero fatto di litigi, tensioni, implosioni e autolesionismi pericolosi più per l’Italia che per il centrodestra? Gli elementi importanti su cui la presidente del Consiglio dovrebbe ragionare sono due. Il primo lo abbiamo accennato ieri. La destra meloniana ha un enorme problema di classe dirigente e quel problema nasce da una forma di complottismo che il presidente del Consiglio, in questi quindici mesi di governo, non è riuscita a governare. Ci si fida solo di chi si conosce bene. Ci si fida solo di chi ha costruito con la premier un legame quasi famigliare. Ci si fida solo di chi ha condiviso con la premier un percorso all’interno del quale la lealtà viene prima di ogni altra cosa. Il complottismo residuo che vive nei pensieri meloniani tende dunque spesso a premiare, in alcuni posti chiave, soggetti le cui caratteristiche primarie sono più vicine ai criteri della fedeltà che della competenza e il caso della Sardegna è lì a ricordare alla premier che per aver un buon candidato in qualsiasi ruolo non è sufficiente “conoscerlo da vent’anni”, come ha detto Meloni la scorsa settimana in Sardegna, ma è necessario assicurarsi che quel candidato possa essere la persona giusta, al posto giusto, al momento giusto. In Sardegna, più che i voti, ciò che Meloni ha perso è però soprattutto altro. È la sua aura di invincibilità, l’idea cioè che il percorso della presidente del Consiglio sia inevitabile, ineluttabile, privo di impacci.

Gli ostacoli invece ci sono, sono rappresentati da un’opposizione al centrodestra che improvvisamente si rende conto di poter essere un’alternativa semplicemente smettendo di considerare come avversari i partiti delle opposizioni e non quelli della maggioranza, e di fronte a questi ostacoli Meloni ha due scelte possibili. La prima scelta è tornare sui propri passi, archiviare le svolte moderate tentate in questi mesi e tentare di non lasciare a Salvini lo spazio identitario della destra più di lotta che di governo (spazio che come è evidente semplicemente non c’è). La seconda scelta, più saggia, è rendersi conto che in prospettiva il principale problema di consenso che potrebbe incontrare Meloni non è legato al suo essere una populista osteggiata dall’Italia antipopulista ma è legato al suo essere una post populista, per così dire, che cerca un modo per evitare di pagare elettoralmente le sue trasformazioni e il suo tentativo di non assecondare le sue stesse promesse demagogiche.

La Meloni di governo, lo sappiamo, è molto diversa dalla Giorgia di lotta. Ma fino a che sarà solo la presidente del Consiglio a incarnare il percorso di conversione della sua destra, e fino a che non vi sarà una classe dirigente diffusa, capillare, in grado di trasformare l’incoerenza meloniana in un fattore di crescita e non in un elemento di contraddizione con il passato, l’impressione che il governo continuerà a offrire sarà quella di voler indicare una strada, per il suo futuro, che salvo la premier nessuno vuole davvero percorrere. Più che la lealtà, conta la competenza. Più che la fiducia, conta la capacità. Più che la paura di contraddirsi, c’è la necessità di crescere. Per imparare qualcosa da una sconfitta forse vale la pena, con molti popcorn, provare a ripartire da qui.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.