Baci a Rep. dal "giornale cognato"

Luciano Capone

Giannini punzecchia il Foglio su Fazzolari e i cognati, ma fa una tripla figuraccia (anche su Elkann). Viva il pluralismo dell'informazione, ma rispettando i limiti della decenza

La libertà di informazione è fondamentale, come ha ricordato il direttore di Repubblica Maurizio Molinari nell’editoriale rivolto a Giorgia Meloni. Senza questo pluralismo, ad esempio, non avremmo scoperto – proprio grazie a Rep. – che Giovanbattista Fazzolari, il braccio destro della premier, “ultimamente gradisce molto il Foglio”.

 

È una notizia che fa rivalutare la figura del sottosegretario Fazzolari, dipinto come un “Pavolini minore”, e che invece ha la finezza di apprezzare un giornale critico, che da un anno segnala i suoi scivoloni (dall’attacco a Bankitalia alla tassa sugli extraprofitti), ricorda i suoi errori di comunicazione (caso Pozzolo), gli ha fatto la celebre intervista sull’“omino della Cia” e ha svelato la patacca del “fax” sul Mes che ha esposto la premier a una figuraccia.

 

Il pluralismo dell’informazione consente anche all’opinione pubblica di farsi un’idea plurale su cosa sia il “conflitto di interessi”, la questione al centro della diatriba tra il gruppo Gedi e la premier. Dal combattivo editoriale su Rep. di Massimo Giannini si capisce che una presidente del Consiglio che critica un gruppo industriale-editoriale per aver venduto all’estero rilevanti asset nazionali rappresenta una “Italietta autarchica e anticapitalista”. Perché le scelte imprenditoriali di John Elkann, scrive Giannini, possono essere “opinabili” ma sono “comunque coerenti con le leggi dello stato e del mercato”. Un governo, quindi, non può disapprovare una multinazionale finché essa non infrange la legge. E, di conseguenza, qualora violasse le leggi non toccherebbe al governo occuparsene, bensì alla magistratura. Si tratta di una visione un po’ riduttiva del ruolo della politica – e della politica industriale – che probabilmente piacerebbe al libertario argentino Javier Milei, ma che ha poco a che fare con la tradizione progressista di Repubblica. Almeno fino al cambio di proprietà.

 

Perché su questo c’è stata una profonda evoluzione, quasi una rivoluzione, nel pensiero dello stesso Giannini. Quando Rep. era ancora di Carlo De Benedetti e al vertice della Fiat c’era Sergio Marchionne, l’allora vicedirettore accusava “l’amerikano” di preparare la fuga in Polonia, di aver fissato con gli accordi di Pomigliano “paletti dolorosi nella carne viva” degli operai con l’obiettivo di trasformare quello stabilimento nel “laboratorio simbolo della rieducazione di tutti i lavoratori”. Pomigliano d’Arco Arcipelago gulag, insomma. E, come ricorda spesso Carlo Calenda, all’epoca la Fca di Marchionne investiva e produceva in Italia molte più auto della Stellantis di Tavares. La cui strategia industriale oggi è definita, al limite, “opinabile”.

 

Il tempo passa, la proprietà cambia e le idee mutano. Così è anche sul conflitto d’interessi. Nel senso che, secondo Giannini, il conflitto c’era con Berlusconi perché il Cav. era imprenditore, editore e premier, mentre “nel caso di tutti gli altri industriali (Elkann compreso) ci sono senz’altro interessi, ma non c’è nessun conflitto, perché si tratta di soggetti privati che esercitano la loro attività al di fuori della politica”. Un’altra visione minimale del problema che, però, produce esiti paradossali. Perché se non c’è conflitto tra l’interesse dell’industriale a vendere auto e quello dell’editore a vendere notizie, allora vuol dire che c’è coincidenza di interessi. Che è esattamente la critica di Meloni. Altrettanto minimale è la tesi che il conflitto d’interessi si manifesti solo se l’editore ha un incarico pubblico. Significherebbe che l’influenza sulla politica italiana dell’Avvocato Agnelli per decenni sarebbe stata limitata entro i confini del comune di Villar Perosa, di cui è stato sindaco per 35 anni.

 

Ma ciò che stona, in questa profonda riflessione di Giannini sulla libertà di stampa e il conflitto d’interessi, è l’attacco sferrato a vari giornali, incluso il Foglio, definiti “quotidiani cognati della destra” perché coordinati nel “copia-incolla” dell’attacco di Meloni contro Rep. È una patacca. Banalmente, il Foglio le affermazioni sulla fuga dall’Italia di Stellantis, editore del gruppo Gedi, le ha fatte prima di Meloni. E, prima di tutti, il problema l’ha sollevato Calenda, isolato per mesi da Rep. finché la premier ha ripetuto le sue riflessioni. C’è voluta la Meloni, insomma, per far cadere l’embargo su Calenda.

 

Il riferimento poi ai “quotidiani cognati” è particolarmente stravagante perché arriva proprio dopo che il “ministro cognato” Lollobrigida, con un comunicato sul sito del ministero, ha attaccato questo giornale con parole diffamatorie e violente – molto più pesanti di quelle usate da Meloni nei confronti di Repubblica.

 

Naturalmente il Foglio è una corazzata che ha “le spalle larghe” per sopportare gli attacchi del governo, evidentemente più robuste di quelle di un piccolo editore come Gedi, di proprietà del quinto produttore mondiale di automobili. Eppure definirci “giornali cognati” del governo è eccessivo, anche per chi è in cerca di attenzione. Va benissimo il pluralismo, ma pur sempre nel rispetto della decenza.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali