Ansa

L'editoriale del direttore

Lo show di Repubblica che cancella tutte le battaglie sul conflitto d'interesse

Claudio Cerasa

Anni contro il Caimano e ora tutto sparito: il conflitto di interesse, quando c’è, si può governare, dice il giornale di proprietà degli Elkann (evviva!). Meloni, le privatizzazioni, le "svendite" e l’impossibilità di essere amici del fascismo e schiavi del mercato

Ricordate il conflitto di interessi? Ah, che meraviglia. La polemica tra la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e gli editori del gruppo Gedi, ovvero la famiglia Elkann, per interposta Repubblica, è interessante da riprendere per almeno due ragioni differenti. La prima ragione riguarda una straordinaria e spassosa questione di merito. La seconda ragione riguarda una magnifica e istruttiva questione di metodo. La polemica la conoscete. Repubblica ha rimproverato Meloni per essere sul punto di “svendere” l’Italia. Tema: la cessione delle quote di alcune società partecipate dallo stato, notizia già annunciata quando la maggioranza presentò la sua nota di aggiornamento al Def alla fine di ottobre. Meloni ha replicato lunedì sera a “Quarta Repubblica”, da Nicola Porro, facendo notare che un gruppo editoriale guidato da un imprenditore che ha spostato in Francia il cuore produttivo dell’ex Fiat vendendo aziende (Marelli), fabbriche (Maserati) e spostando la sede legale della Ferrari in Olanda (Ferrari) non dovrebbe dare lezioni di italianità al governo italiano. Ieri il direttore di Repubblica Maurizio Molinari ha vergato un editoriale molto accigliato per rispondere alle invettive della presidente del Consiglio. Un editoriale da sballo che nell’arco di poche righe più che asfaltare il capo del governo archivia con piglio asciutto anni di storia di Repubblica. C’è stato un tempo in cui Repubblica non andava in stampa senza avere almeno nove articoli dedicati al tema del conflitto di interesse di Berlusconi e c’è stato un tempo in cui la culla editoriale del pensiero progressista del nostro paese viveva denunciando il conflitto di interesse del Caimano.

 

 

Nel corso del tempo, Repubblica ha definito il conflitto di interessi come “un male profondo del paese”, “inestirpabile”, un segno evidente di una “deriva dell’Italia”, della sua etica pubblica, dei suoi valori, dei suoi costumi, un dramma su cui “doveva intervenire l’Europa”. Anni di battaglie dure, accigliate, seriose, asfaltate magnificamente ieri dal direttore di Repubblica, che in un eccellente passaggio del suo editoriale ha ammesso che i conflitti di interesse, anche quando esistono, si possono governare. “Confondere l’indipendenza di Repubblica con gli interessi del suo editore – ha scritto Molinari – significa ignorare i fondamenti stessi della libertà e dell’indipendenza del giornalismo che questa redazione esprime sin dal giorno della fondazione”.

 

 

Gli interessi esistono, naturalmente, ma chi rappresenta degli interessi, come fa legittimamente un giornale con il suo editore, non necessariamente è ostaggio del suo conflitto e può muoversi liberamente governando sia gli interessi del suo editore – dice Molinari anche se Carlo Calenda non sarebbe d’accordo – sia i possibili conflitti derivati dalla possibilità di parlare (e spesso di non parlare) sul proprio giornale dei fatti e delle polemiche che riguardano il proprio editore. La svolta berlusconiana di Rep. (direttore, lo diciamo con affetto) riguarda il metodo della polemica (Elkann vs Meloni) e non è un fatto meno interessante rispetto al tema che riguarda il merito. Repubblica, lo avrete notato, è un giornale che legittimamente considera la maggioranza di centrodestra terribilmente compromessa con il fascismo e ogni giorno cerca di trovare una ragione per dimostrare la bontà della sua tesi (Paolo Berizzi ha una rubrica quotidiana che in modo più o meno diretto si esercita sul tema). Si può naturalmente chiedere conto a Meloni di tutto ciò che ha fatto Benito Mussolini nel ventennio e si può naturalmente chiedere conto a Meloni di ogni saluto romano presente nel paese ma non si può sostenere contemporaneamente la tesi che Meloni sia fascista (semplifichiamo) e la tesi che Meloni sia una reincarnazione della Thatcher (magari) e che in quanto novella liberista (afuera!) stia svendendo il paese in preda a un irrefrenabile desiderio di privatizzare l’Italia (no hay plata).

 

 

Delle due l’una: o Meloni è una pericolosa fascista e nazionalista che, in quanto tale, ha intenzione di allungare la sua mano autarchica in tutti i gangli del paese per combattere il mercato brutto e cattivo, oppure Meloni è una pericolosa liberista che, in quanto tale, combatte ogni tendenza statalista del paese, comprese quelle autarchiche, perché schiava del liberismo sfrenato, perché ostaggio del suo dogma mercatista (magari). Non si può essere contemporaneamente per il mercato e per il fascismo. Non si può essere contemporaneamente eredi del Duce ed eredi di Draghi. Se scegliamo di allontanarci dalle sportellate tra il giornale degli Elkann e il capo del governo (chissà che tra l’editore di Rep. e l’inquilino di Palazzo Chigi, come scrive oggi sul Foglio Stefano Cingolani, non arrivi un abbraccio a sorpresa, magari con un rientro in Italia della Ferrari, della sua sede legale, grazie alle norme contenute nel ddl capitali) il punto forse interessante che meriterebbe di essere isolato quando si parla di privatizzazioni è l’assenza di una linearità nelle scelte del governo, che contemporaneamente annuncia la cessione di una quota di Eni e il subentro pubblico nella ex Ilva e che in diverse occasioni più che svendere l’Italia mostra di essere un governo desideroso di governare giorno per giorno, day by day direbbero i colti, pur avendo di fronte a sé un orizzonte temporale incredibilmente lungo, che pochi governi oggi possono vantare in Europa. Ci piacerebbe occuparci di questo tema, e un po’ oggi se ne occupa Oscar Giannino nel nostro giornale, ma permetteteci di concentrarci sul punto da cui siamo partiti e di rallegrarci persino: anche Rep., di fronte all’accusa di essere in conflitto di interessi per gli interessi rappresentati dal suo editore, dice che il conflitto di interessi è una boiata pazzesca. Il Cav. oggi se la riderebbe alla grande. E noi con lui. Slurp!

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.