Ansa

La sfida dell'immigrazione

Smascherare i populisti: una guida anti demagogia sui migranti

Marco Minniti

Legalità e umanità, sicurezza e nuovi modelli di integrazione. E poi il futuro dell’Africa, le soluzioni in Europa, gli slogan sulle ong e un’urgenza assoluta: un patto per il Mediterraneo e un nuovo sistema di relazioni. Con l’Italia protagonista. Idee concrete per una svolta

La sfida che oggi ci si presenta davanti è di quelle epocali. Lo dimostrano i numeri e le immagini che nei giorni scorsi sono arrivate da Lampedusa. L’errore più grande tuttavia sarebbe quello di pensare che esista un’unica soluzione, una via facile da poter percorrere, dimenticandosi della serie di cause e fattori diversi che determinano il fenomeno migratorio a cui stiamo assistendo. Ma è invece una sfida che si può affrontare e vincere, insieme con una visione e un profondo senso della realtà. Rinunciando così alla retorica. Iniziando, altresì, a guardare al Mediterraneo come una straordinaria opportunità, in cui l’Italia può giocare un ruolo centrale. Il quadro che è squadernato sotto i nostri occhi è, inutile negarlo, particolarmente impegnativo, particolarmente complesso. E se abbiamo come riferimento il 2016, l’anno più difficile per l’Italia e per l’Europa dal punto di vista delle migrazioni, quando all’indomani delle primavere arabe sono arrivati soltanto nel nostro paese in oltre 180 mila, le previsioni nei prossimi mesi, purtroppo, ci consegnano uno scenario ancora più complicato. 

Potremmo dire, citando il titolo di uno splendido libro di Johan Huizinga, che abbiamo di fronte le ombre del domani. L’Africa centro-settentrionale è in una condizione assai difficile, che può sfuggire di mano. Concorrono vari fattori – sociali, economici, geopolitici e ambientali – e in più  sono protagonisti in questo continente una serie di attori regionali e mondiali. Nulla di più complesso. 

Tuttavia, per affrontare una discussione seria sull’immigrazione, occorre ricordarsi che quando le situazioni sono molto difficili, bisogna ritornare ai fondamentali. Prima del “che fare” c’è bisogno di un’analisi concreta di una situazione concreta. I fondamentali ci dicono prima di ogni altra cosa che le migrazioni non sono un’emergenza come si continua a pensare, in parti non piccole dell’Italia e dell’Europa. Sono, bensì, una componente strutturale di questo pianeta. Lo ha spiegato molto bene lo storico Peter Frankopan, in The Earth Transformed, un libro straordinario in quanto capace di ricostruire con il dettaglio tipico della scuola anglosassone quale sia stato il peso nella storia dell’umanità di due grandi temi, tra loro strettamente connessi, con cui facciamo i conti in questo periodo storico: le migrazioni, appunto, e i cambiamenti climatici. Come ampiamente dimostrato questi due aspetti hanno accompagnato il genere umano sin dai suoi albori. Possiamo, oggi, ragionevolmente dire che ci accompagneranno ancora in futuro. Gli studi più aggiornati dicono, infatti, che i cambiamenti climatici, da qui ai prossimi 30 anni, possono comportare lo spostamento di 1,2 miliardi di persone: oltre il 10 per cento dell’attuale popolazione mondiale. Siamo di fronte, come detto, a fenomeni planetari. Talmente strutturali che dovremmo iniziare a definirli un po’ meglio, superando anche dal punto di vista semantico la retorica emergenziale, il classico vocabolario che si accompagna a queste tematiche. L’espressione “flussi migratori” non regge più. Non riesce a darci fino in fondo il contesto nuovo dentro il quale ci stiamo già muovendo. E allora dovremmo forse iniziare a definire più semplicemente questi fenomeni come “movimenti”. Non si tratta solo di una scelta meramente lessicale. Come vedremo qui di seguito riguarda la ricerca di un approccio nuovo.

Accanto alle ragioni che storicamente hanno determinato i movimenti delle persone – le guerre, le carestie, le condizioni economiche, le catastrofi naturali – se ne è aggiunta negli ultimi anni una nuova, che potremmo definire di carattere culturale e tecnologico. L’universalismo, il cosmopolitismo, delle nuove generazioni. Da qualunque parte si provenga, grazie alla diffusione di Internet e dei social network, i più giovani si percepiscono come cittadini del mondo. L’idea di potersi spostare liberamente, condurre una parte della propria vita in un luogo e poi continuare altrove il proprio percorso è un tratto costitutivo della generazione dei millennial. E si badi bene, questo nuovo approccio alla vita non è certo una minaccia, ma rappresenta al contrario un fattore positivo, un elemento di resistenza ai conflitti come strumento di risoluzione delle divergenze.

Tutto questo è ancora più importante nel momento in cui l’Europa è colpita dalla drammatica guerra in Ucraina e mai come adesso le democrazie del mondo sono state così apertamente sfidate. Non è un caso che le dittature e le autocrazie hanno fatto, fanno, del controllo di Internet e dei social network un elemento costitutivo del loro rapporto con l’opinione pubblica.

Pensare di fermare questi straordinari “movimenti di persone”, insomma, è una miope illusione. Continuare a opporre logiche emergenziali dinanzi a fenomeni connaturati all’essere umano sarebbe drammatico. Questi movimenti non possono essere fermati! Non ci sono muri che tengano, lo insegna la storia. I muri sono fatti per essere abbattuti. Si pensi, e lo dico da europeo e da convinto europeista, che cosa ha significato per tutti noi la caduta del Muro di Berlino. Un principio costitutivo della nuova Europa. Basta soltanto ricordare la scelta di procedere all’allargamento a est dell’Europa. Di far diventare i nemici di ieri, gli europei di oggi. E’ bene che nessuno lo dimentichi, a est e a ovest. Fatte queste premesse, quello che deve fare l’Italia, insieme all’Europa e alle grandi democrazie del pianeta, è governare questi processi, sapendo che in tutto ciò non si può prescindere da due principi fondamentali, centrali nella storia dell’uomo e al tempo stesso costitutivi delle nostre democrazie. Il primo principio è quello della legalità, quel sistema di regole e garanzie che il cittadino chiede all’istituzione che lo rappresenta in cambio di una cessione di un pezzo importante della propria sovranità. Il secondo principio è quello dell’umanità: quel sistema di diritti fondamentali che in nessun caso devono essere messi in discussione. Una democrazia non può contrapporre legalità ed umanità. Rischia di perdersi. Compito di una democrazia è conciliare questi due principi. Questo la rende strutturalmente inconciliabile con le autocrazie e le dittature. 

Un contesto generale, che dovrebbe essere valido in tutto il mondo, dal Mediterraneo all’Asia, alle Americhe. A noi, tuttavia, spetta il compito di guardare innanzitutto a quello che ci è più vicino. Guardare insomma al Mediterraneo non più come un problema ma come a una straordinaria opportunità. E questo per una serie di ragioni storiche. Oggettive. 

Il Mediterraneo è stato a lungo considerato un mare sostanzialmente chiuso, in declino, la cui potenzialità poteva essere al massimo di carattere regionale. Anche in Europa ci si era dimenticati forse sbrigativamente degli insegnamenti di Fernand Braudel. Un’analisi e una previsione che si sono rivelate inevitabilmente fallaci. La guerra in Ucraina, nei suoi drammatici effetti, ha reso tutto ciò più evidente. Un conflitto nel cuore dell’Europa che segnala come un vecchio ordine mondiale sia finito per sempre. Abbiamo bisogno di trovare un nuovo equilibrio. Non c’è dubbio alcuno, per esempio, che se si vuole trovare una pace stabile e duratura, bisognerà costruire un nuovo ordine mondiale in cui non si potrà prescindere dal Sud del mondo. Anzi, sarà cruciale. Il Mediterraneo rappresenta il punto di connessione tra l’Occidente, la Grande alleanza delle democrazie, e il cosiddetto Global South.

Il rapporto con l’Africa

Comprendere la valenza strategica di questa dinamica, di una ritrovata centralità della Civiltà del Mediterraneo è il primo passo per intervenire con efficacia. Si tratta di una dimensione ci offre due rilevanti opportunità. La prima è per l’Italia, che rappresenta il ponte naturale tra l’Europa e l’Africa.  Spetta a noi, soprattutto, giocare un ruolo di primo piano in questa partita. La seconda riguarda l’Unione europea e una storia nuova che deve essere scritta nelle relazioni tra l’Europa e il continente africano. La Françafrique è finita, ha detto con la giusta solennità il presidente Macron. Si tratta di trarne fino in fondo le conseguenze. Il rapporto con l’Africa non può essere più gestito da un solo paese, ma deve essere guidato in maniera strutturale da un continente, in grado di esprimere una soggettività politica e democratica, di porsi come attore globale indispensabile per un nuovo corso del mondo. In una parola, tocca all’Europa. Con l’Italia che può essere l’avamposto di questo storico cambiamento. 

Si capisce bene, allora, che la questione delle migrazioni – dei movimenti delle persone – è solo un aspetto di un processo ben più ampio. L’effetto ultimo di cambiamenti geopolitici più grandi. Proprio mentre l’Africa centro-settentrionale è investita da una “tempesta perfetta”. Da un lato, ci sono popolazioni storicamente legate al grano russo e ucraino. Paesi come Tunisia, Egitto, Libia ne dipendevano e ne dipendono per l’80-90 per cento. La cancellazione dei corridoi per il grano espone questi paesi a una grande fragilità economica, all’inflazione alimentare, con conseguenze che si riversano direttamente sulle condizioni di vita di milioni e milioni di persone. Non è un caso che Vladimir Putin, dentro una visione che fa dell’Africa il secondo fronte di una moderna guerra asimmetrica, non abbia voluto rinnovare quegli accordi. Lo scenario si fa ancor più preoccupante considerando i recenti colpi di stato in Niger e Gabon, le tensioni degli ultimi giorni in Burkina Faso. Negli ultimi tre anni ci sono stati otto colpi di stato, mentre è in corso una guerra civile in Sudan e in Mali è riesploso il conflitto tra la giunta militare e le tribù Tuareg del nord. Senza contare il terremoto in Marocco e ciclone Daniel in Cirenaica. Eventi che mostrano plasticamente, in poche settimane, come l’intreccio di fattori politici, economici, sociali e ambientali, definiscano uno scenario di una assoluta complessità. Occorre per questo far lavorare la politica con la P maiuscola. Non c’è un momento da perdere. L’ulteriore destabilizzazione dell’Africa farebbe il gioco delle autocrazie.

A questo si aggiunge il fatto che oggi l’Africa rappresenta, insieme con l’Afghanistan, il principale incubatore del terrorismo internazionale. Le diverse varianti autoctone di Al Qaida e dello Stato islamico controllano quote sempre più significative di territorio e, progressivamente, stanno aumentando le loro “capacità militari”. La sfida del terrore è, ora, concentrata in Africa. Ma la minaccia è globale. In gioco è insomma la sicurezza dell’intero pianeta. 
La Russia continua a considerare l’Africa una scelta strategica. Non a caso, nonostante l’invasione dell’Ucraina, continua a mantenere i suoi contingenti militari, in maniera diretta o indiretta, nelle regioni africane. Allo stesso modo si muove la Cina, che da anni cura con accurata diplomazia i rapporti con l’Africa. Se qualcuno avesse dubbi, basta soltanto guardare quello che è avvenuto in questi giorni: il generale Haftar, leader militare della Cirenaica, è volato a Mosca per incontrare Putin. Le autorità dell’est della Libia stanno trattando con la Cina e le sue imprese la ricostruzione della devastata città di Derna. E poi c’è altro versante non va dimenticato: l’energia. Oltre ai combustibili fossili – necessari all’Europa e in particolare  all’Italia per superare definitivamente la dipendenza dalla Russia – le terre africane hanno grandi risorse di “metalli delle terre rare”, fondamentali per le nuove tecnologie e che sono al centro di qualunque transizione ecologica. Così mentre i Brics nell’ultima riunione hanno aperto a paesi come Egitto ed Etiopia, e la Cina rafforza i suoi rapporti attraverso la Shangai Cooperation Organization, l’Europa tarda a cambiare passo e a prendere atto di quello che accadendo al di là del Mediterraneo E più ritarda, più gli altri ne colmano i vuoti. 

In un mondo che sta cambiando e sarà sempre più dominato dalla cosiddetta “coopetition” – cooperazione e competizione – tra paesi, blocchi e continenti, la realizzazione di un impegno concreto dell’Europa verso l’Africa è ancora più urgente. E’, infatti, evidente una crisi strutturale degli strumenti di governo multilaterale. Esempio ne è stato il fatto che alla recente Assemblea generale delle Nazioni Unite si notavano probabilmente le assenze più che le presenze. Mancavano infatti il presidente cinese Xi Jinping, il primo ministro indiano Modi e quello britannico Sunak, oltre al presidente francese Macron. 

Tocca quindi all’Europa occuparsi dell’Africa. I destini di questi due continenti sono già strettamente connessi. Grandi questioni li legano. A partire dagli squilibri  demografici. Occorre sfatare un altro luogo comune. Non è vero come spesso si sente dire che la crescita delle popolazioni africane sia per noi una minaccia. La crescita demografica è già oggi un fattore economico importante. Lo diventerà ancora di più in futuro. In sostanza, ritorna la centralità del fattore umano. L’India continua ad accrescere la sua dimensione internazionale proprio mentre è diventato il paese più popoloso del mondo. La prima potenza demografica.  La Cina ha smesso di guardare con angoscia alla crescita dei suoi abitanti, cercando di archiviare e limitare gli effetti della politica del figlio unico, dopo averne subito con estrema preoccupazione tutti gli effetti. Tutto questo deve portarci a guardare allo squilibrio demografico tra Europa e Africa non come una minaccia ma, di nuovo, come a una grande opportunità. Il Vecchio continente è tecnicamente in recessione demografica. Abbiamo bisogno dell’Africa. Dalla Banca d’Italia in poi, tutti ci richiamano a questo principio di realtà. Si tratta di un aspetto essenziale per la crescita economica e lo sviluppo delle nostre società. Proprio per questo non si può consegnare il movimento delle persone nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Non possiamo consegnare loro le chiavi delle nostre democrazie.

Che fare?

L’Europa deve promuovere subito un patto con l’Unione africana per il governo legale dei movimenti di persone. Un accordo che dovrà essere tripartito. Accanto alle istituzioni europee e africane, dovranno esserci le Nazioni unite come garanti del rispetto assoluto dei diritti umani, con l’Unhcr e l’Oim. Occorre procedere con immediatezza. Non nei prossimi mesi ma nei prossimi giorni.  Già a partire dal prossimo Consiglio europeo di Granada. E’ tecnicamente una lotta contro il tempo. In quella sede l’Europa dovrebbe mettere nero su bianco un piano per la stabilizzazione, la crescita economica e la prosperità dell’Africa. Un continente che, a differenza di quanto si creda, è potenzialmente ricchissimo, le cui popolazioni sono spesso impoverite da classi dirigenti corrotte e incapaci. Bisogna offrire all’Africa le condizioni perché tutto questo accada. Il primo passo è un finanziamento adeguato del Piano: un miliardo e mezzo entro la fine del 2023 e poi altri tre miliardi per il 2024. Oltre a questo, si potrebbe definire un gruppo di contatto tra l’Europa e l’Africa. Italia, Francia, Germania e Spagna, insieme per dimostrare che l’Europa fa sul serio (l’entente cordiale tra Italia e Francia confermata anche dal vertice euro-mediterraneo di Malta può costituire un solido punto di partenza). Non, come direbbero gli inglesi un talk the talk, ma un reale impegno a voltare finalmente pagina. Sarebbe una straordinaria operazione politica, un segnale enorme per l’Africa, la base di un nuovo sistema di relazioni. Si chiude definitivamente la pagina del neocolonialismo e se ne apre una nuova fondata su due parole: rispetto e condivisione.

L’Italia e il piano per l’Europa

E’ evidente che in questo schema noi abbiamo un ruolo decisivo. Per storia, cultura e collocazione geografica, l’Italia deve fare da apripista. Sarebbe importante che il governo italiano si presentasse al vertice di Granada con una sua proposta. Un progetto da mettere in discussione con gli altri partner. Chiedendo a ciascuno in maniera trasparente di affrontare le proprie responsabilità. Se ci pensiamo bene, la missione storico-politica dell’Italia, in questa fase, non può essere che questa. 

Tale prospettiva avrebbe per l’Italia anche una serie di vantaggi tattici. Oggi è molto più semplice trovare una convergenza in Europa se si riesce ad affrontare alla radice le ragioni dei movimenti delle persone, piuttosto che cercare un difficile accordo sulle ricollocazioni. Peraltro diventate, negli anni scorsi, con il nostro singolare consenso, da obbligatorie a volontarie. In questi anni l’Unione europea, nonostante le sollecitazioni del suo Parlamento, non ha avuto né il coraggio né la forza di affrontare  la madre di tutte le riforme: il superamento del regolamento di Dublino. L’accordo di Lussemburgo (esclusivamente centrato sulla dimensione interna) è utile da approvare ma non risolutivo. Le tensioni, le divisioni di questi giorni dimostrano in maniera inequivocabile che la dimensione interna separata da una visione strategica, dalla dimensione esterna, dal rapporto con l’Africa ci consegna una piccola Europa, divisa e ripiegata su sé stessa. Quello che oggi può unire l’Europa, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale particolarmente importante, è la dimensione esterna. Significherebbe consegnare a ogni singolo paese, a ogni singolo governo, il senso di una missione più alta, in grado di avvicinare i paesi che affacciano sul Mediterraneo e quelli del nord e dell’est Europa. Non dimentichiamo nemmeno per un attimo i milioni di profughi ucraini accolti da tutta l’Europa, in particolare dagli stati più vicini al conflitto.

In questa visione – un patto tra Europa, Africa e Onu – sarebbe finalmente possibile avere la cornice, legale e valoriale, all’interno della quale costruire accordi con i singoli paesi di partenza o di transito. E in questo ambito sarebbe possibile anche ricollocare, rimodulare, il travagliato accordo con la Tunisia. Così facendo, e qui torniamo all’Italia, si darebbe anche ulteriore slancio e potenzialità a un’idea che il nostro governo ha già messo in campo, cioè quella di avere 450 mila ingressi legali nei prossimi tre anni.  Un asset importante in quanto concede al governo una notevole capacità di negoziazione.

Quella dell’Italia è stata una scelta importante. Ma perché diventi pienamente operativa, produca a pieno i suoi effetti, fino a permettere una gestione degli ingressi legali attraverso stabili rapporti bilaterali, bisogna cambiare e superare la Bossi-Fini. Non dovrebbe essere questo un elemento di divisione e battaglia politica. Si tratta di prendere atto che venti anni di questi tempi sono un’eternità. Tutto è cambiato, proprio per questo bisogna cambiare una legge.

Sarebbe molto importante se il governo facesse proprio questo approccio, presentandosi in Parlamento con l’obbiettivo di una discussione ampia. Una sessione parlamentare dedicata esclusivamente al nuovo carattere delle questioni migratorie, in Italia, in Europa e nel mondo, da cui poi far derivare i successivi provvedimenti, le scelte più operative. In sostanza coinvolgere il Parlamento prima dei decreti e non soltanto sui decreti, come è accaduto. Perché un paese che non si divide su certe questioni, che non precipita in drammatico dibattito interno, è molto più forte anche a livello europeo. Il tema dei rimpatri non si risolve allungando i tempi di permanenza nei Cpr. Per fare i rimpatri c’è bisogno che i paesi di partenza li riaccolgano. Ritorna così il tema dei patti bilaterali. Altrimenti il rischio è invece di interiorizzare ancor di più le criticità. Di far diventare il problema sempre di più soltanto italiano. Esattamente l’opposto di quello che l’Italia vuole. Si tratta allora di cambiare paradigma, garantendo ingressi legali significativi, significa anche pretendere in cambio due cose: una lotta senza quartiere ai trafficanti – equiparati ai terroristi – anche attraverso operazioni congiunte di polizia internazionale. E poi, pretendere in virtù degli accordi accoglienza legale l’immediato rimpatrio di chi arriva in Europa e in Italia illegalmente. 

Un patto per gestire legalmente i movimenti delle persone guarda anche a nuovi modelli di integrazione. Come abbiamo visto negli anni di sfida aperta del terrorismo internazionale all’Europa, la parola integrazione è un pezzo fondamentale delle politiche di sicurezza. Anzi sono due facce della stessa medaglia. I terroristi che hanno seminato morte in Europa non venivano dalla Siria o dall’Iraq, erano figli della nostra Europa. Espressione icastica di una sbagliata o mancata integrazione. Il paese che meglio integra è il paese più sicuro. Legalità, integrazione, umanità, sicurezza. Quattro parole chiave per un mondo sempre più connesso e che noi vogliamo più giusto.

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