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Il dossier

La difficile, ed errata, gestione dei migranti. Non siamo nel 2019

Claudio Cerasa

L’approccio duro c’è e gli errori anche. Ma finora sull’immigrazione Meloni ha scelto una strada europeista. Le acrobazie del governo e quel mistero da illuminare: come rendere componibile ciò che invece appare incompatibile

Il punto in fondo è tutto lì ed è tutto in un gioco di parole: come si rende componibile ciò che appare incompatibile? La faticosissima gestione del dossier sull’immigrazione, in Italia, può essere studiata concentrandosi su tre dettagli importanti relativi all’azione del governo. Il primo dettaglio riguarda una questione di metodo e in particolare l’approccio scelto da Giorgia Meloni per tentare di risolvere i problemi generati da una crescente spinta dei flussi migratori. Il metodo di Meloni, nonostante le sbavature, nonostante i risultati che tardano ad arrivare, nonostante le contraddizioni con le proprie idee del passato, è un metodo che meriterebbe di essere definito per quello che è: positivo. Positivo perché Meloni, finora, ha scelto di non cedere troppo alla demagogia sovranista. Ha scelto di non offrire eccessivamente il fianco alla retorica nazionalista. E ha scelto in fondo di considerare l’Europa non come un ostacolo alla risoluzione dei problemi ma come un alleato essenziale per poter ottenere qualche risultato. “La presenza dell’Europa ai confini più esposti all’immigrazione illegale di massa sottolinea che quelli di Lampedusa non sono solo confini italiani ma anche europei”, ha detto ieri il premier in Consiglio dei ministri. Il giorno prima, a Lampedusa, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, aveva ribadito un concetto simile: “L’immigrazione irregolare è una sfida per l’Europa e quindi necessita di una risposta europea”.

Ieri Meloni, con un’acrobazia circense, ha sostenuto che è l’Europa a essere diventata meloniana e non Meloni a essere diventata europeista. E si capisce perché sia stata costretta a dirlo: finora, il governo Meloni, ha seguito un modello opposto rispetto a quello suggerito da Salvini ai tempi del governo gialloverde e quando si cambia idea con tale frequenza la tentazione di negare l’evidenza è forte ed è quasi una questione di sopravvivenza. Pensateci. Non ha chiuso i porti. Non ha dichiarato guerra alle ong. Non ha promosso una politica di blocco dei flussi legali. Ha aperto alle modifiche della Bossi-Fini. Ha votato a Bruxelles accordi sull’immigrazione non graditi agli amici sovranisti. E ha tentato, anche se finora senza successo, di investire l’Europa, e la Commissione, del tema Tunisia. Lo ha fatto con convinzione, sperando e illudendosi che fosse possibile fare affidamento su un demagogo inaffidabile come il premier Saied, e lo ha fatto anche al punto di dover considerare un successo dell’Italia la presentazione di un programma di dieci punti da parte di von der Leyen che in verità non presenta alcuna novità rispetto alle promesse del passato.

Un esempio. La presidente della Commissione europea ha detto che “l’Europa fornirà un maggiore sostegno alla distribuzione dei rifugiati e lo farà invitando gli stati membri a utilizzare il meccanismo di solidarietà volontaria e ad accettare i rifugiati dall’Italia”. Ma, come ha notato ieri la Tagesschau, il più importante telegiornale tedesco, “non è del tutto chiaro se Germania, Francia e Spagna aiuteranno il governo italiano, anche se questo non rispetta gli accordi di Dublino”. Al momento, in effetti, sta accadendo l’opposto: sia la Germania sia la Francia hanno annunciato non di voler aiutare l’Italia ma di voler fermare ogni transito di migranti dall’Italia verso altri paesi europei (“Sarebbe un errore di giudizio considerare che i migranti, siccome arrivano in Europa, devono essere subito ripartiti in tutta Europa e in Francia”, ha detto ieri il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin). Il secondo dettaglio interessante su cui vale la pena concentrarsi riguarda un altro dato emerso tra le righe del modello suggerito in questi giorni dal leader della Lega Matteo Salvini, che a Pontida,  accompagnato da Marine Le Pen, ha tentato di contrapporre alla linea di Meloni un’altra linea più truce: l’approccio muscolare dei vecchi sovranisti. Il problema dell’approccio di Salvini però, inteso come il tentativo di dimostrare che il giusto approccio alla gestione dei migranti è quello messo in campo dal leader della Lega tra il 2018 e il 2019 ai tempi del glorioso governo Conte 1, è che quell’approccio ha dimostrato nel tempo di essere non tanto disumano quanto perfettamente controproducente.

Chiudere i porti significa andare contro il diritto del mare. Rendere più difficile le procedure per l’ottenimento del diritto di asilo significa creare più irregolari. E affidarsi, per così dire, all’amicizia dei sovranisti europei significa inevitabilmente creare le condizioni perfette per aggravare un problema invece che per risolverlo (il nazionalismo è antitetico alla solidarietà e anche per questo essere nazionalisti sull’immigrazione, in Europa, significa essere contro gli interessi nazionali dell’Italia). Individuare le soluzioni perfette per governare i flussi migratori non è semplice. Ma individuare le soluzioni perfette per non governarle è più semplice ed è sufficiente osservare con attenzione cosa ha fatto Salvini nel suo anno al ministero dell’Interno per capire che anche quando si parla di immigrazione vi è una incompatibilità di fondo tra la difesa degli interessi nazionali e la difesa degli interessi dei sovranisti. Il tema della compatibilità tra i due approcci è poi interessante da mettere a fuoco anche per arrivare al terzo punto della nostra riflessione. Al contrario di quanto suggerito da alcuni osservatori in questi giorni (lo ha fatto il Corriere della Sera domenica scorsa), la presenza nella maggioranza di governo di due metodi molto diversi l’uno dall’altro (Meloni più europeista, Salvini più nazionalista) non è lì a mostrare la possibilità che vi sia un revival delle dinamiche innescate da Salvini nel governo Conte. Ma è lì a mostrare una realtà politica importante, unica, difficile da accettare ma complicata anche da negare. In sintesi: la componibilità dell’incompatibile. In Italia, ve ne sarete accorti, le coalizioni di centrodestra sono da anni attraversate dal filo conduttore dell’assurdo. Nel 2019, Salvini ha governato senza Fratelli d’Italia e senza Forza Italia, pur restando in coalizione con loro a livello locale. Nel 2021, Salvini e Forza Italia hanno governato senza Fratelli d’Italia, pur restando in coalizione a livello locale.

Nel 2022, la Lega e Forza Italia hanno accettato di far cadere il governo in cui si trovavano per andare alle elezioni con l’unico partito che si trovava all’opposizione di quel governo. E nel 2023, l’unico partito che sembra essere interessato a non disperdere del tutto l’agenda del governo di cui facevano parte Forza Italia e Lega è l’unico che quel governo lo combatteva dall’opposizione. Un delirio di successo. Allo stesso modo, oggi, l’incompatibile si presta a essere componibile grazie a una divisione dei ruoli tra Meloni e Salvini. Una divisione non studiata a tavolino (Meloni soffre Salvini quando Salvini ricorda a Meloni quello che Meloni non è più) ma frutto di una consapevolezza precisa: far stare insieme linee politiche divergenti è la vera forza del centrodestra. E la differenza con il 2019 è tutta qui. Salvini e Meloni sanno che ci sono dei limiti che si possono superare a parole ma che con i fatti non si possono oltrepassare. E sanno che superare quei limiti significa creare le condizioni perfette per non governare più. L’equilibrio è difficile ma è un equilibrio possibile ed è questo il segreto con cui il centrodestra in questi anni ha scalato il potere: far convivere cinicamente e felicemente dentro la stessa coalizione posizioni teoricamente antitetiche l’una con l’altra offrendo ai propri avversari l’illusione di poter fare leva sulle contraddizioni del centrodestra per infastidire la coalizione. Rendere componibile l’incompatibile senza risultare incompatibili con la realtà. Immigrazione ma non solo. Il futuro del centrodestra è tutto qui. E c’entra poco con il 2019 modello Papeete.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.