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Il decreto Energia boccia l'azione di Meloni e Urso contro il caro carburanti

Luciano Capone

L'introduzione del "bonus carburante" mostra l’inutilità e la demagogia del decreto Trasparenza di gennaio che prevedeva l'"accisa mobile". La retromarcia come metodo: dalla benzina al Pos, dagli extraprofitti bancari al caro voli

L’approvazione in Consiglio dei ministri del “decreto energia” fila liscio, in meno di un’ora, con l’introduzione di provvedimenti invocati anche dalle opposizioni (seppure in un’intensità maggiore, perché la minoranza non ha la preoccupazione dei vincoli di bilancio). Il governo ha varato misure a favore delle famiglie che complessivamente valgono 1,3 miliardi di euro. Ci sono un contributo extra per i bonus sociali,  elettricità e gas; un “bonus carburante” per i detentori della social card; la proroga dell’Iva agevolata al 5 per cento e della sterilizzazione degli oneri di sistema sul gas; 12 milioni  per il trasporto pubblico locale; una rimodulazione dei sostegni alle imprese energivore;  e si è trovato il modo per infilare un mini condono per chi non ha emesso scontrini fiscali.

 

A parte questa sanatoria con “ravvedimento operoso” sulle violazioni fiscali di commercianti e professionisti, si tratta di misure in gran parte annunciate e poco contestate. Aiuti che hanno per lo più il merito di essere indirizzati – eccetto le misure sull’Iva e gli oneri di sistema – alle fasce più povere e di non essere, come invece è accaduto nella fase iniziale della crisi energetica, sussidi generalizzati. Un esempio è proprio l’ultima agevolazione introdotta, il cosiddetto “bonus carburante”, che è rivolto ai detentori della carta “Dedicata a te”,  ovvero la social card da 382 euro una tantum introdotta dal governo Meloni dopo l’abolizione del Reddito di cittadinanza per 1,3 milioni di nuclei familiari con indicatore Isee inferiore a 15 mila euro. Ai 500 milioni stanziati per l’acquisto di generi alimentari di prima necessità, il governo ne aggiunge altri 100 rinviando a un successivo decreto ministeriale la definizione dell’ammontare che in media sarà di circa 75 euro per nucleo familiare. Si tratta di una misura molto diverse dal taglio delle accise, a lungo propagandato da FdI e Lega: nel metodo perché si tratta di un aiuto targettizzato anziché generalizzato; nella sostanza perché costa 100 milioni per tre mesi, mentre lo sconto sulle accise del governo Draghi costava quasi 1 miliardo al mese.

 

Ma si tratta anche, per il governo Meloni, della definitiva ammissione dell’inutilità del decreto Trasparenza di gennaio con cui l’esecutivo aveva pensato di affrontare il caro carburanti. Quel decreto, ideato dal ministro delle Imprese Adolfo Urso, introduceva tre misure: l’esposizione del cartello con il prezzo medio, sanzioni dure per i benzinai e un’“accisa mobile” per sterilizzare l’extragettito dovuto all’aumento dei prezzi. Si sono rivelate, come previsto, tre misure inutili: il cartello da esporre non ha avuto alcun impatto; le sanzioni sono state ridotte dopo le proteste dei benzinai; l’accisa mobile non è mai partita perché, essendo rivolta a tutti, avrebbe avuto un costo elevato e un impatto impercettibile sui prezzi alla pompa: più correttamente, lo stesso Urso ha ripiegato sul bonus carburante.

 

Questa retromarcia non è però un caso isolato. È, piuttosto, il metodo con cui il governo ha affrontato gran parte delle misure in campo economico: prima annuncia o approva un provvedimento demagogico e populista, poi si rende conto che o produce danni o è irrealizzabile, infine fa una retromarcia svuotando la norma approvata o affiancandone un’altra che la neutralizza. Rivendicando sempre, però, di aver fatto la scelta giusta.

 

Il primo grande caso è stato l’annuncio della cancellazione  dell’obbligo per gli esercenti di accettare pagamenti elettronici sotto i 60 euro, con le dichiarazioni improvvide del sottosegretario  Giovanbattista Fazzolari che portarono a uno scontro con la Banca d’Italia. Alla fine, Meloni ha dovuto rimangiarsi la misura in contrasto con gli impegni sul Pnrr, ha inserito in legge di Bilancio la minaccia di una tassa sugli extraprofitti derivanti dalle commissioni, ma alla fine tutto si è concluso a tarallucci e vino con un “tavolo” al Mef che ha prodotto un accordo con l’Abi che è solo un invito alle banche, su base volontaria, a ridurre le commissioni.

 

In maniera più eclatante, e con danni reputazionali maggiori, lo stesso schema è stato visto all’opera con l’imposta sugli “extraprofitti” delle banche: partorita sempre dalla mente di Fazzolari, l’annuncio della tassa ha prodotto un crollo in borsa delle banche e una bocciatura della Bce per il rischio di indebolire il sistema, prima che il governo si rimangiasse tutto con l’emendamento che consente alle banche di non pagare la tassa se accantonano a riserva un importo pari a 2,5 volte l’imposta. Il governo era partito dicendo che le banche andavano tassate perché troppo ricche, ora sostiene che non le tassa se rafforzano il loro patrimonio (come se le due cose non fossero in aperta contraddizione).

 

Una cosa analoga è accaduta, per opera di Urso, nel decreto contro il “caro voli”: prima il governo ha imposto un tetto al prezzo contestato dalle compagnie aeree, poi l’ha tolto quando si è reso conto che era illegale. Pos, carburanti, tassa sugli extraprofitti, caro voli: il governo pensa di risolvere mediaticamente veri o presunti problemi con un decreto, ma poi scopre che il problema diventano i suoi decreti.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali