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L'analisi

Per l'Italia la Via della Seta è stato un flop economico e politico

Fabio Scacciavillani

L’abiura del Memorandum of Understanding è diventata a tutti gli effetti un comodo autodafé da concedere all’Amministrazione Biden. Resta solo da trovare un escamotage diplomatico per non irritare i cinesi

Agli Arlecchini adusi a servire plurimi padroni, per gli acrobati del piede in due scarpe, per i coreografi dei giri di valzer, la decisione sulla conferma del Memorandum of Understanding (MoU) sulla Via della Seta poneva angoscianti dilemmi. L’accordo, firmato il 20 marzo 2019 a Roma da Giuseppe Conte e Xi Jinping, definì a grandi linee un quadro per la cooperazione: 1) Costruzione di infrastrutture fisiche e digitali, tra cui strade, ferrovie, porti, aeroporti e reti di telecomunicazioni; 2)  Promozione del commercio bilaterale e facilitazione dell'accesso delle imprese cinesi al mercato italiano; 3)  Creazione di un ambiente favorevole agli investimenti reciproci; 4)  Cooperazione culturale con scambio di artisti, studenti e ricercatori; 5)  Collaborazione nella ricerca scientifica e tecnologica e lo sviluppo di nuove tecnologie; 6) Impegno per la tutela dell'ambiente e lo sviluppo sostenibile.

I risultati di quegli impegni per l’Italia sono stati modesti. Di progetti concreti non esiste traccia e il saldo commerciale è peggiorato. Nel 2020 le importazioni dalla Cina ammontavano a 32,2 miliardi di euro mentre nel 2022 hanno superato i 57,5 miliardi nel 2022. Le esportazioni italiane in Cina invece sono aumentate da 12,8 miliardi di euro nel 2020 a 16,4 miliardi nel 2022. Il deficit commerciale con Pechino quindi è più che raddoppiato, da 19,4 a 41,1 miliardi di euro. Solo gli investimenti diretti mostrano un bilancio positivo, ma certo non fenomenale: tra il 2020 e il 2021 si sono registrati flussi per circa 16 miliardi di euro verso aziende italiane, posizionando l’Italia al terzo posto in Europa, dopo Regno Unito e Germania. 

A onor del vero va ricordato che poco dopo la firma del MoU il mondo venne travolto dalla pandemia che ha scombussolato le catene logistiche e il commercio internazionale. Ma un’analisi seria e fredda della questione deve travalicare i confini dei rapporti meramente economici. Per la Cina l’Italia è un partner di scarso interesse. Le motivazioni che avevano spinto alla firma del MoU erano squisitamente politiche da ambo le parti. Per il regime di Pechino avviluppare un paese del G7 nella vischiosa ragnatela che i cinesi sono maestri nel tessere pazientemente costituiva un vistoso successo diplomatico. Segnalava al mondo che il fronte delle grandi democrazie non era granitico e che le crepe nei rapporti transatlantici causate dall’Amministrazione Trump potevano allargarsi e approfondirsi. E dove la Cina poteva furbescamente insinuarsi.

Da parte italiana, nella maggioranza gialloverde ribollivano e si spandevano i liquami mefitici del populismo straccione, mescolato al sovranismo da opera buffa, entrambi intrisi di repulsione anti-americana e di rivendicazionismo anti europeo. Nelle mescite dove tali liquami si spacciavano a piene mani si era convinti che la carta cinese fosse un Hatù strepitoso nella partita per sottrarsi al giogo di Bruxelles e della Bce. Nei trip onirici dove la povertà veniva sconfitta da valanghe di debiti pagabili a babbo morto, o di crediti fiscali da rifilare al popolo plaudente, si era insinuata la convinzione che i cinesi avrebbero acquistato a piene mani i titoli del debito pubblico italiano in caso di violazioni del Patto di Stabilità. Che gli Stati Uniti vedessero con sospetto quella firma era un bonus.

Il tempo si è dimostrato galantuomo, o quantomeno un occhiuto revisore dei conti. La Cina non ha ottenuto alcun vantaggio geopolitico e l’Italia ha cambiato nel frattempo tre governi, nessuno con particolari afflati verso Pechino. Quindi l’abiura del MoU, annunciata in via quasi ufficiale dal ministro della Difesa Guido Crosetto, è diventato a tutti gli effetti pratici un comodo autodafé da concedere all’Amministrazione Biden. Resta solo da trovare un escamotage diplomatico per non irritare i cinesi permalosi con un rifiuto umiliante o urticante. Per questo Giorgia Meloni ha giurato che l’abiura non è richiesta da Washington e che andrà a Pechino a baciare la pantofola di Xi Jinping. O perlomeno a ballare un valzer in costume da Arlecchino, calzando quattro scarpe.

 

Fabio Scacciavillani, Autore con Michele Mengoli del libro “Il furto del millennio. Come la Cina ha turlupinato e depredato l’Occidente”

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