(foto Ansa)

L'analisi

Meloni alla prova del 25 aprile: nel cerchio di fuoco del dirsi antifascista

Roberto Chiarini

L’ostacolo da affrontare per la premier è ridisegnare con la memoria anche l’identità del partito: un lungo processo ancora incompiuto

Giorgia Meloni è attesa all’appuntamento del 25 aprile. Dovrà attraversare il cerchio di fuoco dell’antifascismo, pena essere ricacciata nel girone del neofascismo. Non sarà un’impresa facile. Il dilemma che le si presenta è fare una professione di antifascismo e con ciò rinnegare la storia da cui proviene oppure scansare l’ostacolo per rifugiarsi in una formula anodina che non le inimichi il popolo dei nostalgici e al contempo non faccia gridare la sinistra allo scandalo di un premier che non si riconosce nella Resistenza, ossia nell’atto fondativo della nostra Repubblica nata dalla lotta al fascismo. La professione di antifascismo è il cerchio di fuoco che sino a oggi tutti i leader della destra nostrana hanno sempre cercato, in diversa misura, di scansare rifugiandosi in enunciazioni esitanti o comunque evasive. Del tipo: “Quando il fascismo è morto non ero ancora nato” o “Consegniamo il fascismo agli storici”.

L’ostacolo da affrontare è ridisegnare con la memoria anche l’identità. Identità e memoria sono infatti entrambi pilastri portanti di ogni partito. Portanti, e appunto per questo bisognosi di una continua manutenzione per evitare che col tempo non cedano. Fuor di metafora, l’identità di un partito è chiamata a coniugarsi con il mutevole ambiente esterno. Così, pure, la sua memoria ha bisogno di riallinearsi alla nuova configurazione dell’identità. Tutto questo è fisiologico nella vita di un partito democratico. I problemi insorgono per le forze antisistema. In questo caso, si presenta la necessità di sostituire l’identità, pena altrimenti condannarsi all’inattualità e a perdere influenza nella competizione politica e ascolto nella società civile.

Già rinnegare i principi fondativi è doloroso, dover poi riconfigurare anche la memoria può risultare, anzi di norma risulta traumatico. E’ il destino che tocca ai partiti antisistema quando si vengono a trovare di fronte all’alternativa di restare avvinghiati all’identità primigenia, col risultato di finire emarginati, o di sostituirla con una nuova che li riconcili con i valori e i comportamenti della liberal-democrazia e con ciò ottenere una piena legittimazione che li immetta nel vivo della competizione politica. Non è tutto. C’è una seconda operazione, non meno onerosa, da compiere. La sostituzione dell’identità reclama il parallelo cambio della memoria, pena la creazione di una contraddizione tra le due: ciò che finirebbe coll’inficiare la credibilità della stessa svolta politica attuata. L’identità si reggerebbe infatti su una memoria che la contraddice. Tale sfida presenta un grado ancor più alto di difficoltà se il partito ha istituito fin dalla nascita un nesso tra identità e memoria così stretto da condannare al fallimento tutti i tentativi di modificarle in blocco.
Quanto sia improba l’impresa di ri-sintonizzare identità e memoria lo sa bene la sinistra nostrana. Per quanto al tornante degli anni Novanta il partito di Gramsci e Togliatti potesse esser considerato ormai a pieno titolo un partito socialdemocratico, quando prese atto del crollo del comunismo, passò ad abrogare la sua originaria identità, che pure aveva resistito ad ogni precedente smentita della storia, non poté evitare una scissione nel suo gruppo dirigente e la secessione dalla casa madre di molti militanti ed elettori.

La stessa difficoltà la sta incontrando la destra. Identità e memoria sono stati i pilastri su cui essa si è retta sin dalla sua costituzione in partito. Una volta forgiati, questi suoi tratti costitutivi si sono confermati irrevocabili, anche perché utili a sostenere la lotta con un ambiente esterno scontatamente ostile. La nostra destra, unica in Europa, è nata neofascista. Si è condannata così ad una stabile delegittimazione che l’ha posta fuori gioco sia nei confronti del sistema politico che dell’elettorato moderato. Irrilevante nelle istituzioni, si è ritrovata impossibilitata anche a collegarsi con quei vasti settori d’opinione pubblica orientati a destra, ma da sempre indisponibili a compromettersi con una destra marchiata dal nostalgismo. Non troncando il legame con un passato irricevibile dai democratici, è vissuta in una condizione di continua emergenza, braccata per un verso dal “regime antifascista”, impossibilitata dall’altro a competere a armi pari con la sinistra perché priva di un altrettanto possente supporto elettorale e di un reale potere coalizionale.

La convivenza di queste due istanze contraddittorie, tendenzialmente divaricanti, ha resistito a lungo per il carattere – diversamente dalla sinistra – spiccatamente esistenziale, più che politico, della sua identità. Un’identità che si è saldata a una memoria non negoziabile, il che non le ha impedito comunque di essere alquanto adattabile ad alleanze e programmi anche incoerenti con la sua constituency.

Il suo punto fermo irrinunciabile è stato solo l’indisponibilità ad accettare rimemorizzazioni negative del regime fascista, Rsi compresa, Tanto meno a sottoscrivere un suo svilimento, non parliamo poi di un suo rigetto. Non sono stati risparmiati a Gianfranco Fini, già reo di aver preso le distanze da tutti i totalitarismi e aver condannato in modo esplicito la Repubblica di Salò, l’aver osato denigrare il fascismo storico come “male assoluto del ’900”.
La difesa dell’eredità fascista spinta fino al vanto e all’esibizione pubblica è rimasta ovviamente appannaggio solo di una minoranza ristretta, per quanto assai attiva e intraprendente. Ciò non toglie che la rilevanza politica assunta dalla conventicola dei custodi del patrimonio ideale del fascismo nella vita politica nazionale si sia rivelata ben più ampia della loro ridotta consistenza numerica. La ragione sta nel fatto che essi si sono proposti da ala marciante di quell’opinione pubblica che gravitava ai margini del Movimento sociale e che, seppur per difetto, nutriva in buona sostanza gli stessi sentimenti di apprezzamento, nemmeno troppo tacito, del “tempo in cui treni viaggiavano in orario”.

Il possibile aggancio di questo mondo è stata la scommessa mai vinta della destra italiana. Quanto più però l’antifascismo, da tavola dei valori della democrazia repubblicana si è venuto avvalorando ai suoi occhi come ideologia della sinistra, tanto più si è allargato lo spazio politico che la destra nostalgica poteva occupare e non ha mai occupato. E’ rimasta la contraddizione tra una memoria bloccata sulla stagione maledetta del fascismo e la ricerca di un’identità ripulita dal marchio neofascista che le permettesse di mettere a frutto le nuove opportunità offerte dal gioco democratico.


Risultato: si sono fissate due opposte identità, l’una anti e l’altra pro sistema, la prima decisiva per tenere saldo e unito il popolo neofascista, la seconda cruciale per permettere ai suoi vertici di giocarsi le opportunità offerte dalla competizione politica all’interno delle istituzioni. Sono due identità che corrono come due parallele destinate a non incontrarsi mai. Crisi delle ideologie e crollo del Muro di Berlino hanno finito per favorire da ultimo l’opzione di un pieno inserimento nell’agone democratico. La destra si è allora convinta dell’improrogabilità di operare lo sganciamento da quell’ingombro che le ha sempre impedito di dilagare nella distesa dell’opinione pubblica conservatrice. Si è ritrovata così di fronte al dilemma: se sostituire l’identità neofascista con un’identità liberale o far conto solo sulla sua lenta estinzione per causa naturale.

La prima sarebbe stata un’operazione dolorosa, addirittura traumatica, per un partito dalle matrici antisistemiche. La lunga convivenza all’interno delle istituzioni ha sedimentato, sì, comportamenti leali nei confronti della democrazia. Il passo ulteriore di abiurare la propria fede originaria restava però troppo oneroso. Proprio perché consapevoli degli enormi costi in termini di dissenso e magari di una scissione che l’abbandono della propria identità avrebbe comportato, i vertici dei vari partiti alternatisi alla testa della destra non hanno voluto, o non hanno mai avuto il coraggio di mandarla al macero. Hanno preferito lasciarla consumare in modo che il distacco avvenisse nel modo più indolore possibile, limitandosi a offrire della propria memoria storica versioni edulcorate, ma poco convincenti. Lungi dal “fare i conti col fascismo”, si potrebbe affermare che la destra si sia limitata, per ricorrere ad un’espressione icastica di Alessandro Giuli, ad “espellere il tutto […] come un calcolo renale”.

La destra ha evitato insomma pronunciamenti e prese di posizione che potessero farla tacciare dal suo popolo di aver liquidato il lascito del fascismo. I vertici prima del Msi, poi di Alleanza nazionale, infine di Fratelli d’Italia si sono limitati a condannare singole pagine del ventennio (come recentemente ha fatto Meloni con le leggi razziali) o a esprimere giudizi di condanna sommari (lo ha fatto Fini dichiarando “male assoluto” il fascismo e la Meloni deplorando ogni forma di totalitarismo), ma non hanno mai voluto storicizzare il fascismo prendendo atto dell’inconciliabilità di democrazia e autoritarismo, con ciò troncando di netto le proprie radici con il passato mussoliniano. Hanno preferito lasciarle lentamente rinsecchire sperando in una loro lenta e indolore estinzione. E’ questa persistente traccia di strisciante nostalgismo, o per lo meno di rifiuto a recidere il legame, anche solo emotivo, con il ventennio che danneggia l’immagine di destra genuinamente liberale che cerca di avvalorare di sé FdI, offrendo in tal modo agli avversari (interni e internazionali) un’arma di ricatto.

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