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L'editoriale del direttore

Dimenticare la crescita, l'involontario assist di Schlein per Meloni

Claudio Cerasa

La leader dem ha scelto una netta discontinuità con il Pd di governo, ma il rinnovamento del partito, con la sua fuga dal riformismo, rischia di regalare alla destra molte battaglie di sinistra e di trasformare Fratelli d'Italia nell’unico grande partito interessato alla crescita

Ci credereste se vi dicessero che Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno in comune un elemento ancora più importante, strategico e clamoroso rispetto all’essere semplicemente due donne alla guida dei due partiti più importanti d’Italia? Sulle pagine del Foglio, qualche giorno fa, il professor Dilmore ha notato, avventurandosi nei complicati sentieri della sinistra, una simmetria politica interessante da mettere a fuoco: quella tra il modello Sánchez e il modello Schlein. La tesi è suggestiva. Sia Sánchez sia Schlein, ha detto Dilmore, quando sono stati eletti segretari hanno ereditato un partito spaccato a metà, quasi in caduta libera. Entrambi sono stati insidiati a sinistra da movimenti populisti con programmi simili a quelli della sinistra radicale e a destra da partiti centristi di ispirazione macroniana che speravano di attrarre verso di sé l’elettorato moderato che votava Psoe o Pd. Entrambi, poi, si sono considerati nemici del capitalismo liberista, qualsiasi cosa questo significhi, affermando, con toni diversi, la necessità di arrivare al potere utilizzando anche il dizionario tradizionale della sinistra più estremista.

      

Dilmore, poi, aggiunge che nel lessico di Schlein vi è però un elemento che rende il profilo della segretaria del Pd infinitamente meno competitivo rispetto a quello di Sánchez e quell’elemento si lega a una parola che non a caso è sparita in questi mesi dall’orizzonte della leader del Pd: la crescita, bellezza. Per Schlein, nota Dilmore, la crescita è una questione che si può aggirare utilizzando parafrasi banali come “sviluppo sostenibile”. E non è un caso che la leader del Pd, in questo suo inizio di corsa, abbia ristretto il campo delle riforme strutturali, necessarie per codificare l’identità del suo partito, a quelle relative alla transizione ecologica e digitale.

 

Il ragionamento di Dilmore ci consente di fare un passo in avanti nella descrizione del modello di leadership del Pd, una leadership che in sostanza ha scelto di regalare non a caso ogni battaglia sulla crescita ai suoi avversari, e quel passo ci permette di aggiungere un tassello al nuovo mosaico della sinistra, che spiega bene la ragione per cui, nonostante la distanza siderale che vi è tra il programma di Schlein e quello di Meloni, esiste un punto di contatto importante tra la leader del centrodestra e la leader del Pd. Un punto che non riguarda la presenza in campo di due leadership femminili, fatto comunque rilevante e unico nelle grandi democrazie mondiali, ma la presenza in campo di due leader intenzionate a portare avanti una narrazione speculare sul passato del Pd, tutta impostata sulla volontà di affermare una precisa damnatio memoriae relativa alla stagione riformista del vecchio Pd. Schlein, come è evidente già dai primi passi della sua segreteria, ha scelto di rioffrire una verginità al nuovo Pd proiettando il suo partito verso una netta discontinuità con il vecchio Pd di governo. E lo ha fatto seguendo uno spartito preciso: demonizzazione delle politiche sul lavoro dei governi del Pd, demolizione delle politiche sull’immigrazione adottate dai governi del Pd, freddezza rispetto alle politiche di automazione industriale promosse dai governi del Pd, interesse zero verso le riforme istituzionali già patrimonio del Pd, indifferenza assoluta rispetto alle battaglie sul garantismo caldeggiate a lungo dal Pd, freddezza di fronte alle politiche pro mercato portate avanti in passato dagli esecutivi a guida Pd. Un nuovo Pd, sembra voler dire dunque Elly Schlein, per essere percepito come innovativo, come moderno, ha il dovere di cancellare in fretta ogni cordone ombelicale con il passato Pd di governo (si cancellano le idee, non le correnti che hanno sostenuto quelle idee, perché quelle correnti oggi sostengono chi sta provando a cancellare quelle idee). E in questa operazione di demolizione del passato la segretaria del Pd ha un alleato inaspettato che risponde proprio al nome di Giorgia Meloni. Che dalla posizione di Schlein, naturalmente, ha molto da guadagnare per diversi motivi.

 

In primo luogo, perché permette al partito di Giorgia Meloni di dimostrare che gran parte dei problemi che esistono oggi in Italia sono attribuibili ai malgoverno del Pd, malgoverno certificato proprio dalla narrazione della segretaria del Pd, che si vergogna talmente del Pd del passato da essere arrivata al punto di demonizzare ogni idea riformista del vecchio Pd. E non è un caso che nella prima occasione in cui Schlein e Meloni si sono incrociate, il 15 marzo al question time della Camera, Meloni ha ringraziato pubblicamente Schlein per aver ammesso quello che il suo partito dice da sempre, ovvero che i guai dell’Italia sono stati creati dai governi del Pd (Schlein, in quell’occasione, ha attaccato Meloni per essere poco interessata, a suo modo di vedere, al tema dei salari, “vada a dirlo a chi percepisce una paga da fame”, e Meloni ha ringraziato, nella sua risposta successiva, Schlein, affermando che “chi ha governato finora ha reso purtroppo più poveri i lavoratori italiani e questo governo deve fare quello che può per invertire la rotta”).

 

La seconda ragione che rende l’asse involontario tra Schlein e Meloni molto vantaggioso per la seconda più che per la prima è che la fuga del Pd dal riformismo rischia di avere un effetto boomerang per il Pd. Rischia di  trasferire sul modello Meloni un profilo riformista che al Pd di Schlein non sembra interessare. Rischia di regalare alla destra molte battaglie di sinistra. E rischia di trasformare il partito di Meloni nell’unico grande partito interessato alla crescita.

 

Meloni e Schlein, oggi, sono oggettivamente i simboli di una politica che tenta di rinnovare se stessa, ma per come si sono messe le cose il rinnovamento del Pd oggi rischia di essere funzionale più al partito di Giorgia Meloni che allo stesso Pd. Anche a causa di una parola che non a caso è sparita in questi mesi dall’orizzonte della leader del Pd: la crescita, bellezza.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.