Salvini approfitta della crisi di Meloni per celebrare il 2019 dei "porti chiusi", che però fu un disastro

Valerio Valentini

L'eredità sprecata di Minniti. La folle soppressione della Missione Sophia. L'assurda sospensione della redistribuzione obbligatoria. Le mani legate alla Guardia costiera. La stagione del trucismo al Viminale ha prodotto guai seri. Solo una premier in affanno può fare sì che il leader leghista la rivendichi

Chi doveva dirglielo, che sarebbe finita  in trionfo? La settimana più tribolata nei suoi rapporti con Giorgia Meloni conclusa con la baldanza di chi  trattiene un ghigno compiaciuto, per non lasciare trasparire il godimento nel vedere l’altra, “quella brava”, annaspare tra amnesie e nevrosi. E insomma Matteo è Salvini riuscito a rivendicare perfino i risultati del 2019, il “mio anno al Viminale”: come se non fosse quello, in realtà, l’anno che più ha peggiorato le politiche di gestione dei migranti in Italia. L’ordine è quello di scansare ogni polemica, respingere qualsiasi apparente lusinga. “Una vittoria mediatica di Salvini? Macché”, mettono le mani avanti i suoi. “Matteo s’è limitato a ricordare i dati”.

I dati, appunto. Pure quelli citati un po’ a casaccio. Perché è vero, sì, che nel 2019 si sono registrati meno morti degli anni precedenti, nel Mediterraneo, in termini assoluti, ma se questo dato va riferito al minor numero di sbarchi, allora Salvini dovrebbe riconoscere che quella di cui lui poté godere fu soprattutto l’inerzia di una dinamica innescatasi a seguito degli accordi siglati da Marco Minniti con la Libia. Erano quasi 180.000 in media, quando il ministro dell’Interno di Gentiloni s’insediò; un anno e mezzo dopo, secondo i dati dello stesso Viminale, quando Minniti cedette il testimone al leghista, se ne registravano 40.000. Con una differenza, però: che nella stagione salviniana, quella dei “porti chiusi”, la percentuale dei morti durante le traversate s’impennò  fino al 2,5 per cento, il dato più alto registrato dall’Unhcr fin dal 2014.

A questo aumento della letalità contribuì, ovviamente, anche la sospensione della Missione Sophia.  E cioè di un’iniziativa europea che consentiva di fare, col contributo di 27 paesi, quello che mercoledì a un certo punto, sia pure su scala notevolmente minore, s’è pensato di far fare alla sola marina italiana. La proposta avanzata dagli uffici del ministero della Difesa era in effetti di assoluto buon senso: offrire una sala operativa, con tutte le informazioni privilegiate che la Difesa ha, ai corpi coinvolti nelle operazioni di salvataggio in mare, che sarebbero tuttavia rimasti i responsabili di quelle operazioni. Sennonché, captando le rimostranze dei tecnici di altri ministeri (Economia e soprattutto Trasporti), lo stesso Guido Crosetto ha chiesto di espungere la norma ritenendo che stava emergendo una comunicazione sbagliata che rischiava di scaricare sulla marina future responsabilità che invece fanno capo al Viminale.

E pure per questo ha gongolato Salvini: lasciando che, nell’aggrovigliarsi dei pettegolezzi, venisse attribuita a lui la scelta di bloccare quello che al Mit definiscono “un mezzo blitz” della Difesa, mettendola giù così: “La norma di Crosetto avrebbe  allargato a dismisura il raggio d’azione delle nostre operazioni di salvataggio”. Ma Sophia serviva proprio a questo: a fare in modo che, pur dovendo gestire gli sbarchi, l’Italia condividesse con l’Ue i compiti di pattugliamento in mare aperto. Prima, beninteso, che Salvini la rottamasse in nome della propaganda antieuropea. Quella che, del resto, indusse lui e Giuseppe Conte ad assecondare le istanze di Visegrád per ottenere la sospensione degli accordi di redistribuzione obbligatoria. Gli stessi che ora Meloni e Salvini smaniano di riattivare, lamentando che nel 2022 i ricollocamenti sono stati appena 117. Nel 2017-18, prima l’Italia andasse dietro a Orbán, furono 11.000.

Ma c’è di più. Perché il 2021, l’anno celebrato da Salvini sul grugno di Meloni, è stato anche l’anno in cui le direttive del Viminale hanno depotenziato la capacità d’azione della Guardia costiera. Anzitutto ridefinendo i requisiti di ciò che “evento Sar” (in precedenza, come ricordò l’allora ammiraglio Nicola Carlone, qualunque barcone sovraccarico veniva di per sé ritenuto un obiettivo da mettere in sicurezza); e poi cambiando le regole d’ingaggio della Guardia costiera stessa, costretta di fatto, da allora, ad agire non oltre il confine delle 12 miglia delle acque territoriali. Riconsiderati alla luce tragica del senno del poi, dopo la strage di Cutro, appaiono due scelte terribilmente sbagliate. Che dicono quanto tossica sia, nella gestione dei salvataggi in mare, l’eredità di quella stagione dei “porti chiusi”.

Ma è chiaro che incaponirsi sui dati di realtà, perseverare nella memoria di quel che fu il trucismo gialloverde, è una roba che non può permettersi chi, come Meloni, è in affanno permanente nella gestione dei dossier e nella comunicazione. E questo Salvini lo sa, e allora se la ride. Perfino il ritiro degli emendamenti leghisti per ripristinare, alla Camera, la sostanza dei defunti “decreti Sicurezza”, viene offerto dal capo del Carroccio alla premier col fiato corto come un atto di presunta, appiccicosa cortesia: “Tanto abbiamo già ottenuto tutto quel che volevamo, nel decreto di Cutro”. 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.