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Difficile la settimana di 4 giorni per il tessuto produttivo italiano

Oscar Giannino

Settimana corta ma a parità di salario, un’opzione da maneggiare con cura. E senza l’obbligo di legge

La proposta avanzata dalla Cgil della settimana di lavoro fissata per legge in quattro giorni con riduzione dell’orario ma a parità di salario piace alla nuova sinistra del Pd, piace ai media, anche qualche esponente del governo ha detto che ci rifletterà. La Cisl il 23 febbraio l’ha proposta in chiave diversa: nessun obbligo di legge ma avvio di trattative nelle singole aziende a seconda del tipo di produzione e delle connesse esigenze organizzative, per verificare la disponibilità delle imprese a quattro giorni lavorativi con un quinto di ore di lavoro in meno, magari da dedicare alla formazione. Poiché “settimana di quattro giorni” è un bello slogan ma molto diverso a seconda di cosa si intenda, meglio partire dai dati.

 

Prima domanda. In Italia si lavora troppo? Spulciamo su Eurostat le medie effettivamente lavorate da ciascun dipendente full time, compresi gli straordinari e al netto di pause pranzo. Se guardiamo all’intera economia, negli ultimi 10 anni il dato italiano è inferiore alla media Ue e, tra i principali paesi, la media italiana è più alta solo di quella francese. Nel 2021 in Italia ciascun dipendente full time ha lavorato in media 37,8 ore alla settimana, 39 ore in Germania, 38,4 nella media dell’Ue. Dunque in Italia il dipendente a tempo pieno lavora meno di 38 ore a settimana. Non le 40 ore massime fissate per legge, con una punta massima consentita per particolarissime esigenze fino a 48 ore. 


Seconda domanda: ma perché in Italia l’aumento di redditività delle imprese non finisce mai ai lavoratori? Leggiamo cosa dice l’Istat sulla “quota profitto delle imprese”. E’ la misura percentuale del risultato lordo di gestione – sottolineo lordo, non netto, cioè pretasse, contributi, oneri finanziari e via continuando – rispetto al valore aggiunto a prezzi base. Bene, essa era di poco superiore a quota 43 per cento negli anni 2010 e 2011, è scesa sotto 42 nel post 2011, nel 2016 è risalita fino a 43,7, poi è scesa fino a sotto quota 40 per cento nei primi tre trimestri del 2022. Nei numeri Istat, la crescita della quota profitti delle imprese non c’è, c’è il contrario. Occhio poi alla produttività. Tra 2000 e 2021, l’economia italiana ha registrato un gap di produttività di oltre 15 punti rispetto a quella tedesca. Senza un rafforzamento della dinamica della produttività del lavoro in Italia, una riduzione per legge dell’orario di lavoro a parità di salario comporterebbe aumenti della remunerazione oraria non sostenibili nei bilanci delle imprese, mettendo a rischio la tenuta occupazionale.


Terza domanda: ma il manifatturiero italiano tira, almeno in quel settore i padroni perché non dovrebbero tagliare orari preservando salari? I dati: per ore lavorate settimanali in media dal dipendente full time, la manifattura italiana è in linea con la media Ue, l’unica vera eccezione è la Francia. Quanto alla produttività, malgrado l’apporto positivo che la manifattura dà a quella nazionale purtroppo compensato da quello negativo della Pa e di ampi settori dei servizi, la produttività oraria manifatturiera comparata 2000-2021 ha registrato nei tre principali paesi competitor europei una crescita doppia rispetto a quella italiana. A maggior ragione in settori esposti alla concorrenza internazionale come quelli industriali, aumenti delle retribuzioni unitarie effetto di una riduzione legislativa degli orari, se non accompagnati da guadagni di produttività comporterebbero una perdita di competitività con ricadute occupazionali negative. E un’accelerazione degli investimenti volti a sostituire occupati con automazione e intelligenza artificiale. Vogliono questo, i fautori della proposta? Ovvio che no, loro sostengono che l’aggravio a carico delle imprese è socialmente giusto, e che comunque questi numeri sono falsi, perché diverse imprese italiane già stanno adottando la soluzione. E citano il nuovo protocollo avviato da Banca Intesa, con parità di salario su quattro giorni lavorativi ma su cui si redistribuisce un orario effettivo che è solo di 90 minuti inferiore a quello prestato in precedenza. Esattamente come il Belgio, esempio citato dalla Uil, che ha sì avviato la settimana di quattro giorni a parità di salario, ma su di essi la prestazione quotidiana aumenta perché la somma settimanale è esattamente uguale a quella dei cinque giorni precedenti, quindi per le imprese zero aggravi.

 
Esistono – è vero – nel post Covid alcune decine di imprese italiane che hanno avviato la settimana di quattro giorni a parità di salario e orario ridotto: ma sono o rami italiani di multinazionali, o medie imprese titolari per loro merito di posizioni di grande forza sui mercati mondiali, oppure in settori high yield dell’auto, moda e lusso in cui i margini unitari sui loro prodotti sono altissimi. La realtà media e mediana dell’industria italiana, composta in percentuale elevatissima di piccole aziende, se li sogna, quei margini. Deve fare i salti mortali a ogni crisi, per crescere in patrimonializzazione e investimenti, lavorando per difendere ogni possibile centesimo di margine per fronteggiare costi e oneri crescenti. Una realtà che dovrebbe sconsigliare alle anime belle di ripetere che la citatissima sperimentazione avvenuta nel Regno Unito su 61 aziende in tutto si attagli alla realtà italiana.  Conclusione: no alla demagogia dell’intervento per legge, sì a trattative aziendali nei casi in cui davvero la soluzione è possibile, ma in ogni caso occhio, perché senza maggior produttività ci scaviamo la fossa tutti.

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