Foto di Filippo Attili, Palazzo Chigi, via LaPresse 

Il caso

Il guaio di Meloni con gli Stati Uniti riguarda cinque dossier delicati

Claudio Cerasa

Cordate boicottate (Ita e Priolo), investimenti a rischio (Intel e Tim), ombre cinesi su partite delicate (Electrolux). Perché la diplomazia americana guarda con sospetto le manovre economiche della premier atlantista

È difficile individuare oggi un elemento di vulnerabilità reale nella leadership meloniana e in questo momento la presidente del Consiglio sembra avere, come si dice, le stelle perfettamente allineate. I mercati la studiano, ma per ora non la temono. La Commissione la scruta, ma per ora si fida. La sua politica estera crea apprensione, ma anche sull’Ucraina finora è stata impeccabile. Gli alleati la stuzzicano, ma l’effetto è simile al solletico. Gli avversari la provocano, ma la competizione nell’opposizione è tale da non lasciare spazio alla competizione con la maggioranza.

 

Persino Papa Francesco, si racconta, nonostante la distanza con Meloni sul tema dell’immigrazione, ha mostrato in privato segnali di profonda simpatia nei confronti della prima premier donna del nostro paese. Le costellazioni sembrano essere allineate, dunque, ma esiste un dossier sul quale il governo Meloni è finito improvvisamente sotto osservazione da parte di un importante partner internazionale, con il quale la presidente del Consiglio, almeno finora, ha mostrato una sintonia profonda. Il dossier riguarda tre partite di politica industriale per così dire strategiche e il partner in questione che sbuffa, per usare un eufemismo, non è del tutto irrilevante: sono gli Stati Uniti di Joe Biden.

 

E negli ultimi giorni, nei palazzi del governo è arrivato un messaggio in bottiglia da parte di Shawn Crowley, l’Incaricato d’affari ad interim presso l’Ambasciata degli Stati Uniti d’America in Italia, il sostituto di un ambasciatore che in Italia deve essere ancora nominato. La storia è questa e riguarda cinque dossier delicati. Un dossier riguarda il cielo, un dossier riguarda il petrolio, un dossier riguarda gli elettrodomestici, un dossier riguarda i microchip, un dossier riguarda la rete.

 

Al centro di tutto c’è un filo conduttore: il sospetto, da parte dei diplomatici americani, che l’Italia di Meloni voglia penalizzare, fortemente, gli investimenti americani. Non si sa se il sospetto sia fondato, ma si sa che l’accusa è ben circostanziata. Non appena arrivata, Giorgia Meloni ha allontanato dall’orizzonte di Ita la cordata americana, guidata dal fondo Certares e da Delta Air Lines, che era a un passo dal concludere l’operazione di acquisto della ex Alitalia (ora la palla è ai tedeschi di Lufthansa). Subito dopo, il Mise ha scelto di scartare, a sorpresa, la proposta arrivata da un fondo di private equity importante, di nome Crossbridge Energy Partners, fondo con sede a New York, che da settembre tratta con l’Italia per acquistare la più importante raffineria del paese: quella di Priolo, che da sola genera il 20 per cento del carburante prodotto nel nostro paese (Priolo è in grado di processare 350 mila barili di greggio al giorno, pari a un quinto della capacità di raffinazione italiana). 

 

E nel farlo, l’Italia ha scelto di affidarsi a un fondo di nome G.O.I. Energy,  una divisione del fondo di private equity Argus New Energy Group, che ha sede a Cipro e che è sostenuto principalmente da investitori israeliani (secondo alcune indiscrezioni di stampa, il fondo avrebbe collegamenti con alcune aziende russe, molto presenti in effetti nell’economia cipriota, ma i legali del fondo hanno smentito le “illazioni” considerandole “senza fondamento”).

 

Il terzo dossier importante riguarda Electrolux, il gruppo svedese di elettrodomestici presente in Italia con tre stabilimenti eredità della storica acquisizione del gruppo Zanussi. Electrolux sta vagliando l’ipotesi di vendere ai cinesi di Midea, con grande preoccupazione degli americani che non vedono di buon occhio un ulteriore rafforzamento di Pechino dalle parti di Stoccolma (già possiedono la Volvo).

 

Washington sta premendo sugli scandinavi ma vorrebbe un uguale sforzo da parte del governo di Roma che rischia di trovarsi i cinesi in posizione di comando in una delle filiere tradizionali della manifattura italiana. Il quarto dossier riguarda il famoso investimento da oltre 11 miliardi di dollari di Intel, grande multinazionale americana, per costruire una fabbrica di manifattura del backend (dove vengono appoggiati e connessi i chip) in Italia. Investimento negoziato dal governo Draghi, e dall’ex ministro Vittorio Colao, che ora è a un passo dall’essere ritirato per una molteplicità di ragioni che non riguardano solo la convenienza da parte delle aziende americane a investire nel proprio paese a causa o grazie all’Inflation Reduction Act firmato da Biden la scorsa estate, ma anche per ragioni di fiducia rispetto alle condizioni offerte dall’Italia agli investitori internazionali.

 

E infine, caso ancora più attuale, vi è il dossier Tim. Venerdì scorso, il cda di Tim ha esaminato un’offerta da 18 miliardi di euro più bonus arrivata dal fondo di private equity Kkr per l’acquisto della rete di Tim. Il cda di Tim ha detto di aspettare “un’offerta migliorativa” entro il termine del 31 marzo 2023. E quando l’offerta arriverà, il governo Meloni, che attraverso Cdp ha il 9,8 per cento di Tim (nel cda di Tim, il membro scelto da Cdp è il presidente di Cdp: Giovanni Gorno Tempini), si ritroverà a dover fare una scelta importante: accettare saggiamente di privatizzare una rete che aveva promesso che mai sarebbe diventata privata (il sottosegretario Alessio Butti, l’esperto di innovazione di Fratelli d’Italia, aveva affermato di essere pronto a nazionalizzare Tim pur di non lasciare la rete ai privati) oppure essere coerente con le proprie promesse e offrire una nuova ragione per alimentare una leggenda pericolosa: lo scarso interesse del governo italiano per i quattrini americani.

 

Una leggenda che come tale va considerata, perché il governo Meloni è ultra atlantista, ultra americano, ultra allineato per fortuna all’Amministrazione Biden, sui grandi temi, e che però esiste e  nasce non da un nuovo e famigerato ordine meloniano ma da un disordine interno al governo che, in una stagione in cui il friendshoring ha una sua centralità, può contribuire a creare problemi anche laddove i problemi potrebbero non esserci.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.