Foto di Claudio Furlan, via LaPresse 

elezioni regionali

Il flop di Majorino in Lombardia dimostra che la sinistra non sa vincere al nord

Maurizio Crippa

Nonostante la Lega dipinta come già finita e Fontana come dead man walking, Pd e Cinque stelle uniti hanno perso. E la Moratti non ha certo rubato voti. Il settentrione resta una terra ostile per i progressisti 

Sintesi provvisoria, ma anche abbastanza definitiva senza nemmeno calcare la mano, del risultato in Lombardia delle “sinistre”, il Pd soprattutto. In Lombardia, intesa la regione più socialmente stratificata ed economicamente sviluppata d’Italia, la sinistra non ha mai vinto (prima elezione, 1970). Nemmeno stavolta, quando il 58 per cento dei lombardi non è andato a votare, rispetto al 30 per cento delle scorse politiche, e in quel 28 per cento una bella fetta è composta da elettori della Lega; non ha vinto nemmeno stavolta, con il partito di Matteo Salvini che il suo pifferaio di Hamelin ha portato a buttarsi da solo nelle sacre acque del dio Po (cinque anni fa la Lega aveva il 29,6 per cento, ora viaggia attorno al 16 proiettivo).

 

Dopo aver dipinto per due anni Attilio Fontana come un dead man walking, e invece i voti dei lombardi li ha presi. Se la sinistra non vince neppure dopo una pandemia che ha scosso brutalmente i nervi e le certezze dei lombardi, dopo due anni di campagna giustizialista (finita nel nulla, diciamo) forse il problema è la sinistra: le scelte che ha fatto e continua a fare. “Nord terra ostile. Perché la sinistra non vince” era un bel libro del giornalista e saggista Marco Alfieri scritto nel 2008. Ancora nel 2022, la piattaforma “Gli stati generali” ci ha fatto sopra un convegno. 

 

Ci sarebbe ancora da aggiungere che nel 2018 il voto era accorpato alle politiche (affluenza al 74 per cento) ma Giorgio Gori, un candidato più che credibile per l’elettorato di sinistra, e senza il disturbo di Italia viva-Azione a sinistra, perse di 20 punti contro un destra-centro allora in ottima salute leghista. Vero, e va detto, Gori ebbe contro i Cinque stelle che corsero da soli ed ebbero il 17 per cento: il famoso campo largo non avrebbe fatto l’impresa, ma sarebbe stato sconfitto di pochi punti. Ma qui si arriva all’oggi.

 

La coalizione di sinistra guidata da Pierfrancesco Majorino (a metà spoglio accreditato del 32,8 per cento, quasi quattro punti sopra Gori, ma con centinaia di migliaia di schede in meno) ha scelto di allearsi con i Cinque stelle: motivo, almeno formale, del niet del Terzo polo. Ma i Cinque stelle, osservando i dati delle politiche, a Majorino non hanno portato proprio niente. Inutili. Si discuterà molto, a sinistra, se il “tradimento” del Terzo polo sia stato letale, e Carlo Calenda ha già risposto di no. La verità numerica è che la sinistra avrebbe perso in tutte le possibili combinazioni del cubo di Rubik.

 

Poi c’è però qualche verità politica. Innanzitutto, la scelta del Pd di allearsi al M5s – inesistente in Lombardia come solo può essere inesistente un partito che non crede all’impresa e non vuole i termovalorizzatori, in una regione che ne ha appena avviato una super Biopiattaforma a Sesto San Giovanni – è stata una scelta politica, in vista di congressi o quant’altro. Ora Enrico Letta dice che il partito di Conte che voleva fare un’Opa sul Pd ha fallito: ma dovrà riflettere su molte cose. Ma già la scelta di Majorino, leader della sinistra interna più radicale, avvenuta con manovra della segreteria del partito senza le primarie che un possibile sfidante d’area riformista come Pierfrancesco Maran chiedeva, è andata in una direzione forzata e obbligata.

 

Non si dirà, ovviamente, che il tentativo di Letizia Moratti con Calenda e Renzi di sottrarre voti al Pd sia riuscito: un polo riformista che va da solo per ora non esiste. Ma di certo una sinistra spostata a sinistra, non poteva convincere i lombardi. E si può tornare al libro, ormai un classico per ogni elezione lombarda, di Marco Alfieri: il nord è destinato a rimanere una terra ostile per la sinistra. Non solo per motivi utili e profondi, che Michele Salvati elencava già 15 anni fa: “Il nord se la cava benone. C’è capitalismo e libertà sociale e d’impresa. Siamo noi, la sinistra, ad avere una questione settentrionale”.

 

Ma perché, banalmente, i lombardi – pur oggi molto incazzati con la loro sanità ingolfata  – non sono per nulla convinti di avere il servizio sanitario peggiore d’Italia; né che la sanità privata debba sparire. Non sono interessati a un governo regionale contrario a pur minime forme di autonomia. Non vogliono votare per un partito che accusa, di fatto, di appropriazione indebita una regione che fornisce a Roma un residuo fiscale di 30 miliardi l’anno. Non credono a una sinistra che non alza la voce contro politiche europee che rischiano di affossare l’automotive lombardo e il manifatturiero (chiedere informazioni alla Confindustria locale). E si potrebbe continuare. Una sinistra così, è riuscita a perdere anche contro una destra abbandonata da una grande parte dei suoi elettori.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"