Giulio Andreotti durante una conferenza stampa della Dc (Olycom)

L'ultimo centro

La cultura della mediazione, la scuola di politica, l'autoironia. Perché il ritorno della Dc resta impossibile

Francesco Cundari

Nonostante quella fine improvvisa e ingloriosa, nel pieno di Mani pulite e della “rivoluzione maggioritaria”, la lunga ombra della Democrazia Cristiana ha continuato a dominare la scena. Ma sebbene evocata quotidianamente, paventata e desiderata, la Balena bianca non tornerà

Di tutte le nevrosi che hanno caratterizzato la politica italiana negli ultimi trent’anni, oggi possiamo dirlo, l’ossessione per la Democrazia cristiana e per il suo sempre imminente ritorno è stata senza dubbio la più infondata. Pur non riuscendo a incarnarsi, tuttavia, il fantasma della Balena bianca non ci ha mai abbandonato. Non c’è stato giorno in cui non sia stata invocata, per richiamarla in vita o per esorcizzarla, per indicarla come modello o per additarla al pubblico ludibrio, da ogni genere di veggente, praticamente sin dal giorno del suo scioglimento, nel gennaio del 1994, fiaccata dai referendum elettorali e dalla tempesta giudiziaria degli anni precedenti. Eppure, nonostante quella fine improvvisa e ingloriosa, nel pieno di Mani pulite e della “rivoluzione maggioritaria”, la lunga ombra della Dc ha continuato a dominare la scena. Amici e avversari, estimatori e sprezzatori dello Scudo crociato non hanno praticamente parlato d’altro. 

 

Lo spettro del Grande Centro ha tolto il sonno ai suoi più acerrimi nemici, fautori del bipolarismo maggioritario e della democrazia dell’alternanza. Il miraggio del Grande Centro ha tolto il sonno ai suoi più devoti seguaci, nostalgici del bipolarismo mondiale e della democrazia bloccata. Come spesso accade, non avrebbero vinto né gli uni né gli altri, o forse avrebbero vinto tutti. E per i successivi trent’anni l’Italia avrebbe avuto sia l’alternanza, sia la democrazia bloccata. Avrebbe avuto persino, per lungo tempo, il bipolarismo mondiale in un paese solo, l’anticomunismo senza il comunismo, la guerra fredda senza l’Unione sovietica. Ma non avrebbe mai riavuto la Dc.

La Democrazia cristiana è stata un modo di governare e di fare politica, ovviamente, ma anche un modo di pensare, un modo di parlare, un modo di vestire. E’ stata persino un modo di camminare. Un incedere dimesso, uno strascicare i piedi senza far rumore, sfiorando appena il pavimento, quasi pattinando. L’esatto opposto, fisico, acustico e psicologico, del marziale passo dell’oca. E se questa pensate sia una fantasia o un’immagine letteraria – lo dico ai più giovani immemori di quell’antica, un po’ goffa e assai felpata andatura – guardate come cammina Sergio Mattarella.

 

La Democrazia cristiana, un po’ come l’Italia, la mamma e tutte le cose importanti della vita, è stata per gran parte degli elettori – persino per gran parte dei suoi elettori – insopportabile e indispensabile. Tanto più insopportabile quanto più indispensabile. E quindi scontata, eterna e indistruttibile, non meritevole né bisognosa di particolari cure e attenzioni. Al contrario, passibile di ogni sorta di sberleffo, come la mamma di un adolescente viziato, desideroso di mostrarsi autonomo e indipendente, ma ben lieto di trovare sempre il piatto in tavola all’ora di pranzo. Proprio come la maggior parte delle mamme italiane.

 

Non per nulla, nel linguaggio di tutti i giorni, una “risposta democristiana” era, ed è ancora oggi, una non risposta, una “soluzione democristiana” una non soluzione, una “scelta democristiana” un modo di accontentare tutti e nessuno allo stesso tempo. Così come una risposta, una scelta o una soluzione “all’italiana” sono da sempre sinonimo di una risposta, scelta o soluzione pasticciata, approssimativa, mediocre. Chissà se esistono altri paesi in cui i cittadini tendano con tanta naturalezza a identificarsi con un dispregiativo. Sarà forse un segno di autoironia, cosmopolitismo e tolleranza, ma forse è anche la spia di un oscuro complesso di inferiorità nei confronti del resto del mondo. Non so se esista altrove l’espressione “non facciamoci riconoscere”, ma una cosa è sicura: il primo a utilizzarla, in Italia, dovette essere senza dubbio un democristiano.

 

Ecco perché oggi il ritorno della Dc è impossibile e impensabile, nonostante tanti ci pensino e ci provino, e perché in nulla le assomigliano gli infiniti tentativi di imitazione. Era già sufficientemente ridicola, specchio di un lutto mai davvero elaborato, l’ostinazione con cui tanti osservatori continuavano a utilizzare le parole della Dc come metafora e termine di paragone della politica di oggi. Era già sufficientemente grottesco sentir definire Luigi Di Maio un “doroteo”, come la corrente maggioritaria della Dc, la più potente e la più indefinibile, cioè la più democristiana. Ma l’idea che adesso il nuovo centro – l’ennesimo – dovrebbe essere rappresentato proprio da lui, quello che guardando dritto l’obiettivo della telecamera nell’estate del 2019, un mesetto prima di andare al governo col Pd, scandiva di non voler avere nulla a che fare “con il partito che in Emilia-Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli”, è al di là di ogni commento e di ogni immaginazione. Bisogna anche dire, in ogni caso, che è stato quasi altrettanto assurdo immaginare una nuova Democrazia cristiana guidata da Silvio Berlusconi, come lo sarebbe una Dc guidata da Matteo Renzi o da Carlo Calenda

 

Viviamo tempi assertivi, del tutto sprovvisti di ironia, figurarsi di autoironia, specialmente in politica. Ed è una contraddizione forse solo apparente, comunque significativa, che la spinta decisiva allo sradicamento di qualunque forma d’ironia dal discorso pubblico, in cambio di un atteggiamento truce, melodrammatico e sguaiato, sia venuta proprio dal movimento fondato da un comico. Di sicuro non è un caso che quello stesso movimento sia (o sia stato) il principale nemico del parlamentarismo e della democrazia delegata, in nome della democrazia diretta.  

Siamo ormai, come si dice sempre, nell’epoca della disintermediazione. E certo non poteva sopravvivere in quest’epoca un partito quale la Dc, interamente edificato sulla “cultura della mediazione”, che della mediazione faceva non solo il suo principale e pressoché unico obiettivo politico, metodo e merito allo stesso tempo, ma anche un modo di guardare al mondo. Un modo di guardare agli altri e anche a se stessi. Partito della mediazione permanente, non di rado sconfinante nella paralisi e nella palude, da cui però sapeva a volte distaccarsi, distaccandosi anche da se stesso, uscendo letteralmente fuori di sé, perché, nel sistema bloccato in cui la Dc era condannata a governare, inevitabilmente, finiva per farsi pure l’opposizione.

 

Partito di correnti e capicorrente, ma senza capi, non per nulla trovò il suo leader più longevo e indistruttibile in Giulio Andreotti, che del condottiero non aveva né il fisico, né il portamento, e nemmeno il tono di voce, che comunque nessuno gli sentì mai alzare, nemmeno per un attimo. La Democrazia cristiana non era solo il centro del sistema politico, era il centro del paese. Era e poteva esserne il centro, il luogo d’incontro e di compensazione di tutte le sue tensioni, proprio perché c’erano le estreme, perché c’erano la destra e la sinistra, perché attorno a quel centro c’era anche una larga e ricchissima periferia. 

 

Da quando, dopo l’azzeramento della cosiddetta Prima Repubblica e lo spappolamento delle culture politiche tradizionali, tutti o quasi tutti i partiti, di fatto, sono diventati di centro, non c’è stato più bisogno della Dc. Non c’era più nemmeno lo spazio. La conformazione dell’antica città della politica prevedeva infatti un intrico di vicoli e stradine che sfociavano in una grande piazza e da lì ripartivano verso slarghi e piazzuole minori. Quell’antica struttura era stata però rasa al suolo dal referendum maggioritario del 1993, con l’idea di ricostruirla secondo la pianta di Manhattan, salvo poi riempirla di terribili e fatiscenti casermoni, per giunta tutti uguali, al posto dei grattacieli newyorkesi, per cui non c’erano né i soldi né gli architetti.

 

La Democrazia cristiana era un grande partito di centro, che aveva un senso, un’identità e una funzione nella misura in cui, fuori, c’erano gli altri. Dal momento in cui sono o si dicono tutti o quasi tutti di centro, centrosinistra o centrodestra, non può stupire che il reiterato tentativo di ricostruire il centro del centrosinistra, il centro del centrodestra e il centro del centro non abbia prodotto altro che un pulviscolo di sigle destinate a disperdersi nell’ambiente circostante al primo soffio di vento. Essendo diventati tutti di centro, sono diventati al tempo stesso tutti estremisti, e viceversa. Non è un gioco di parole, ma la pura e semplice cronaca di questi trent’anni, culminata e riassunta nello spettacolo mozzafiato di quest’ultima folle legislatura, cominciata con il governo populista che doveva farci uscire dall’euro, con una crisi istituzionale in nome del “piano b” e una richiesta di impeachment agitata nelle piazze, e finita con l’unità nazionale, il governo Draghi, il Pnrr. 

 

Del resto, la vera alternanza che il sistema maggioritario ha dato all’Italia è stata proprio quella tra tecnici e populisti. Dopo quarant’anni all’insegna del primato della politica e dei politici, assicurato dall’intramontabile egemonia democristiana, il partito-stato che controllava tutto, abbiamo avuto trent’anni all’insegna dell’antipolitica e della non-politica, con presidenti del Consiglio non parlamentari e parlamentari non politici, in un tripudio di società civile e movimenti incivili. Dalla politica che decideva tutto siamo passati alla politica che non conta niente, e proprio per questo grida, si scalda e pretende di comandare in ogni angolo. La Democrazia cristiana, ma forse la Prima Repubblica in generale, rappresentava egregiamente la tranquilla consapevolezza dei forti; i partiti della cosiddetta Seconda Repubblica rappresentano bene la sterile prepotenza dei deboli.

 

La Democrazia cristiana era anzitutto una scuola di politica, e una scuola durissima, in cui per andare avanti occorreva saper navigare tra correnti e capicorrente pronti a travolgerti alla prima esitazione, in cui bisognava sapere tener conto di tutti, e da tutti guardarsi. I partiti di oggi sono una straordinaria scuola di antipolitica, in cui congressi veri e propri quasi non si celebrano più, e anche quando si tengono finiscono quasi sempre con una scissione. Vale a dire che chi perde si offende e porta via il pallone. Non può stupire che gli allievi di simili scuole, una volta al potere, si rivelino quasi sempre incapaci di governare. Se non sei in grado di governare nemmeno il tuo partito, cioè l’associazione di chi la pensa come te, come potrai mai essere in grado di gestire la cosa pubblica? Adolescenti incapaci di tenere in ordine la propria cameretta pretendono di guidare una nazione. Da questo punto di vista, la parabola del Movimento 5 stelle, nella sua inarrestabile furia autodistruttiva, è solo la versione più estrema, parossistica e parodistica, di una deriva che ha colpito da tempo tutti i partiti.

Anche a questa tornata elettorale, come in tutte le tornate elettorali precedenti dagli anni Novanta in poi, i giornali dedicano grande attenzione alle manovre al centro, al laboratorio, al cantiere, al crogiuolo centrista sempre in piena attività. In trent’anni, e non è un caso, non ne è mai uscito niente di significativo: non dico una nuova Dc, ma nemmeno un nuovo Partito repubblicano o un nuovo Partito liberale. Certo però nessuno avrebbe potuto immaginare che un giorno, proprio di lì, sarebbe uscito Di Maio.