(Foto di Ansa) 

Capitale decaduta

Incendi e monnezza. Perché lo schifo di Roma riguarda anche Mario Draghi

Salvatore Merlo

Le tonnellate di rifiuti che attirano ratti e cinghiali, l'inefficienza dei trasporti pubblici, l'odore di bruciato dei roghi vicino al centro città sono le caratteristiche della decandenza di una città che ritrae il paese intero

Poiché Roma è la capitale d’Italia, il suo stato pietoso, dunque il suo onore, è un problema dell’Italia intera. Se Roma fa schifo, allora fa schifo anche Palazzo Chigi che è la sede del nostro governo. Se Roma è piena di monnezza, allora è pieno di monnezza anche il nostro Parlamento. E se Roma puzza di putrido, allora, purtroppo, puzza di putrido anche il Quirinale che è simbolo della Repubblica non meno della città che lo ospita. Non c’è  bisogno di un trattato di diritto costituzionale per spiegarlo. Non sarebbe nemmeno necessario citare quanto detto non troppo tempo fa da Sabino Cassese:“La capitale serve la nazione, non serve solamente a sé stessa. E chi gestisce la capitale gestisce al contempo la nazione”. Capitale decadente, nazione decaduta. Il default dell’una precede e determina quello dell’altra. E non c’è Pnrr che regga.

  
Se la palma di Sciascia saliva verso nord, a Roma non da oggi è giunto il babà avariato, qualche mozzarella di bufala malcreata, una sorta di napoletaneria deteriore, una meridionalizzazione ma mostrificata. Il caos e il degrado come norma di un ordine indecifrabile.

 

Secondo un calcolo a spanne in questo momento ci sono circa mille tonnellate di monnezza che fermentano per le strade della capitale d’Italia, con 40 gradi all’ombra. E non la si può nemmeno raccogliere, questa monnezza, perché gli impianti di trattamento in pratica non esistono più. Sono andati a fuoco, come è andata a fuoco ieri mezza via Aurelia. In una zona abitata. Forse mai come in questo sporco inizio d’estate la grandezza che tramonta aveva avuto a Roma il sapore del ratto, il pelo del cinghiale, il grido del gabbiano, l’afrore della putrefazione e la puzza di bruciato che raggiunge pure Piazza di Spagna. Nemmeno con Virginia Raggi. Perché ogni sindaco di Roma in carica è il peggiore. E fa rimpiangere il precedente. Roma non è una città per sindaci, è un’emergenza nazionale ben più del gas, dell’elettricità e del petrolio. Perché Roma è l’Italia. 

 
Tutto d’altra parte è in emergenza a Roma:  dai trasporti pubblici alla nettezza urbana, dalle strade ai parchi. Il governo se la cava promettendo poteri speciali al sindaco Roberto Gualtieri. Il quale dovrebbe invece incatenarsi davanti Palazzo Chigi. Andare dal presidente della Repubblica.

 

Pretendere che si smentisca l’ironico pessimismo di Ennio Flaiano, quando diceva che “di tutte le dominazioni subite dall’Italia, la peggiore è stata quella degli italiani”. Gualtieri dovrebbe dunque ammettere che è tutto maledettamente più grande di lui. Che insomma Roma non è una città per sindaci. E d’altra parte non esiste nessuna capitale al mondo che sia gestita come una città normale. Ed è ovvio. Roma è l’Italia e l’Italia è Roma. Lo sapevano i piemontesi, che arrivati nella città papalina ne modificarono persino l’urbanistica. Lo sapevano bene i fascisti, che negli anni '30 trasformarono Roma in una città governata dal Consiglio dei ministri e la diedero in amministrazione a Giuseppe Bottai, uno degli uomini più intelligenti del Ventennio. Era ministro dell’Educazione e contemporaneamente governatore di Roma, perché si riconosceva l’esistenza di un interesse nazionale nella gestione di un’entità locale.

  
Roma puzza di bruciato. Poiché le sterpaglie non vengono mai tagliate, ormai da quasi quindici anni, nemmeno nei parchi pubblici, ecco che ieri è andato a fuoco un grosso tratto dell’Aurelia. Le origini dell’incendio saranno chiarite, ma il fuoco è divampato in un attimo tra le erbacce che in centro come in periferia sbucano dall’asfalto, tipo siepi riarse dal sole. Trentacinque persone intossicate, autoambulanze da tutti gli ospedali della città, evacuazione di palazzi interi, una nuvola di fumo visibile persino dalla centralissima via del Tritone. Il falò dell’abbandono amministrativo e del degrado urbano. I bilanci in rosso e la decadenza di tutto, dal manto stradale che uccide i motociclisti sino agli autobus che saltano le corse perché i mezzi si rompono. Proprio come la metropolitana, con le sue scale mobili perennemente transennate. Quella sozza pattumiera chiamata “metro” che tra qualche giorno, il 4 luglio, chiuderà alle nove di sera fino al 2023. Il governo ha emanato un decreto, ma non per riparare le stazioni e i binari consunti: hanno abbassato il livello minimo dei requisiti di sicurezza per garantire che il servizio non vada interrotto già adesso. E davvero ogni cosa svillaneggia la più bella città del mondo, che è anche il cuore dell’Italia, mentre le immagini di Roma tornano a fare il giro del pianeta. Mario Draghi conta di rilanciare la nazione con il Pnrr. Il presidente della Repubblica esprime ottimismo. Ma come fanno, se non si occupano del posto in cui esercitano la loro altissima funzione?

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.