(foto Ansa)

Caro Pd, ma dov'è lo scandalo se il Cav. si candida al Colle?

Alessandro Maran

“Non lo voterei. Indignarsi per la sua mossa però è sbagliato: vi spiego perché”. Lettera di un ex vicecapogruppo del Pd

Nell’introduzione del bel libro che ha curato e che raccoglie alcune riflessioni di Iginio Ariemma, un dirigente politico e un’analista acutissimo che ha denunciato in vari libri la crisi progettuale della sinistra post-comunista, la moglie Luciana Azzalone ricorda che il “concetto politico filosofico” sul quale Iginio ha insistito sino agli ultimi giorni della sua vita è stato: “La libertà viene prima”, frase lapidaria di Bruno Trentin. “Libertà, uguaglianza sono valori assoluti, ma l’uguaglianza deriva dalla libertà. La libertà è la progenitrice della sinistra. Non c’è sinistra senza libertà. E’ il valore assoluto da cui dipendono tutti gli altri… La libertà viene prima, come abbiamo fatto a non capirlo!”. 

Non sarebbe male tenerlo a mente. Anche perché, come ha spiegato Rocco Ronchi in un formidabile saggio pubblicato sulla rivista Doppiozero, anche il populismo si radica nel terreno della moderna metafisica della libertà. La libertà è una sua parola d’ordine, che risuona nel suo appello alla sovranità (“padroni in casa propria!”) e perfino negli appelli deliranti dei No vax. Da questo punto di vista è un fenomeno squisitamente “moderno”. La modernità è stata, infatti, segnata in modo inequivocabile dalla rivendicazione della autonomia del soggetto contro l’eteronomia (la verità di fede, la verità dogmatica). Ma, scrive Ronchi, la libertà dei moderni è anche, nello stesso tempo, libertà del volere. E proprio l’errore “testimonia della libertà infinita del soggetto come soggetto del volere. L’errore è il garante della libertà”. Nelle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij, il protagonista afferma infatti il suo diritto assoluto a ribellarsi alla verità razionale, rivendica il suo diritto assoluto all’errore come errore in cui fissa tutta la sua libertà sovrana: “Due più due fa quattro, questa è matematica (…) Signore Iddio, ma a me che importa delle leggi di natura e dell’aritmetica se poi, chissà perché, queste leggi e questo due più due quattro non mi piacciono?”.

Ecco, io non ho mai votato Berlusconi e non lo voterei certo alla presidenza della Repubblica. La stagnazione del Paese ha ovviamente molti padri, ma continuo a pensare che nessun singolo individuo abbia responsabilità più grandi di quelle di Berlusconi. La sua colpa più grande non è quella di avere reso l’Italia meno democratica, ma di non aver mantenuto nessuna delle sue migliori promesse: più liberalizzazioni, più meritocrazia, più crescita, meno tasse, meno sprechi, meno burocrazia. Basta un solo esempio, quello (appunto) della giustizia. I dati sull’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari sono ormai stranoti. Eppure, i suoi governi non hanno mai affrontato seriamente il problema della riforma della giustizia. Il più delle volte le riforme sono state evocate come possibili ritorsioni verso decisioni non gradite, poi abbandonate appena passato il pericolo, o hanno consistito in misure molto limitate intese unicamente a risolvere i suoi guai. E può darsi che non gli interessasse veramente una riforma della giustizia, ma che volesse sfruttarne le disfunzioni per alimentare il suo vittimismo davanti all’opinione pubblica. 

Certo, sarebbe un spasso vedere Berlusconi salire al Quirinale grazie ai voti dei redentores grillini. Ma tutti sanno, a cominciare dai suoi alleati, che la sua ascesa al Colle più alto è destinata a restare solo un sogno. Non ci sono i numeri e non basta certo l’ultima assoluzione da parte del tribunale di Siena per ripulire l’immagine del Cavaliere. Inoltre, è probabile che il suo vero obiettivo sia piuttosto quello di decidere chi ci andrà davvero al Quirinale. Del resto, Berlusconi è un uomo del passato (non per caso Libération ha titolato perfidamente “Le Retour de la momie”). E il passato è passato. 

Ma se si candida al Colle dov’è lo scandalo? Berlusconi ha costruito, certo utilizzando le sue risorse economiche, organizzative e mediatiche, un’area politica potenzialmente maggioritaria in un grande paese industrializzato, esprimendo opinioni, interessi, e pulsioni per trent’anni prive di cultura e di legittimità e, dopo il repulisti di Mani Pulite, orfane di rappresentanza politica. Non per caso, come ha scritto Giovanni Orsina, è stato l’unico leader che dal Risorgimento in poi ha osato dire apertamente, in modo esplicito, sfrontato e impudente che gli italiani vanno benissimo come sono. A modo suo, Berlusconi ha rappresentato quello stesso profondo desiderio di libertà che ha guidato Harry “Coniglio” Angstrom, il protagonista della tetralogia di John Updike, nella sua erratica fuga da una vita mediocre, ce lo ha fatto sentire simile come un fratello e ha fatto di lui un simbolo dell’America (e di tutti noi). E con questa “libertà del volere” dovremo fare i conti ancora.

Berlusconi (e prima ancora la Lega) è l’espressione di un grande rivolgimento iniziato nel secolo scorso: la sollevazione dei ceti produttivi (dipendenti, imprenditori, agricoltori professionisti, commercianti, artigiani e altri lavoratori del settore privato) contro lo sfruttamento di una classe politico-burocratica che, per dirla con Luigi De Marchi, “spacciandosi per paladina dell’interesse generale, si appropria di una parte sempre più cospicua del loro reddito, riuscendo a vivere e ad arricchirsi, nell’ozio, nella sicurezza e nel privilegio, alle spalle di chi lavora nella fatica e nell’insicurezza tipica di ogni attività di mercato”. Questa sollevazione antiburocratica, antistatalista è il filo rosso che ha collegato la svolta reaganiana in America, quella thatcheriana in Gran Bretagna, quella antisocialista in Germania, Austria, Belgio, Scandinavia e Francia e perfino, con tutte le ovvie specificità, quella anticomunista nell’Est Europa. Da allora, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Ma l’illusione che una volta sparito il Caimano tornerà tutto come prima impedisce di vedere e di comprendere il desiderio di libertà che c’è nel Paese. Come ha scritto malignamente Max Gallo, l’Italia è la metafora dell’Europa, ovvero la società in cui tutto si manifesta in modo caricaturale, esagerato, eccessivo, dove le malattie latenti si presentano in modo evidente ed esplodono mentre negli altri Paesi moderni sono soltanto in incubazione. Ma non è una anomalia. Basta dare un’occhiata a quel che capita negli altri paesi avanzati. Ora, certamente, le cose sono cambiate. Anzitutto, lo Stato è ritornato. Secondo l’Economist, inizia l’era del “bossy state”. Il rapporto tra i governi e le imprese cambia continuamente. Ora i cittadini chiedono una maggiore capacità di intervento sui problemi (dalla giustizia sociale al clima) e i governi stanno cercando di orientare le imprese in modo da rendere le nostre società più sicure e più giuste. I segni di questo approccio si vedono ovunque. L’agenda di Joe Biden è incentrata su un protezionismo soft, sussidi industriali e una regolamentazione volta a tutelare la classe media. In Cina, il giro di vite di Xi Jinping punta a frenare gli eccessi e ad “addomesticare” la scena imprenditoriale. L’Unione europea sta prendendo le distanze dai liberi mercati per abbracciare la politica industriale e l’ “autonomia strategica”. Certo, non è detto che questo “prepotente” intervento nell’economia produca, come sperano i suoi sostenitori, prosperità, equità e sicurezza maggiori. Potrebbe causare più inefficienza e più isolamento e avvantaggiare gli interessi corporativi. 

Resta il fatto che la crisi economica del 2008 e poi la pandemia hanno destabilizzato la società e il sistema economico neoliberisti. Michele Salvati e Norberto Dilmore sostengono, infatti, nel loro ultimo libro che i recenti sviluppi politici, economici e culturali potrebbero creare le condizioni per aprire una nuova fase nella storia del capitalismo nei Paesi avanzati. E come per altre fasi stabili del capitalismo, i confini tra Stato e settore privato, tra efficienza e inefficienza dei mercati e sostenibilità sociale e ambientale dovranno essere ridefiniti per dare una risposta alla tensione (che ha caratterizzato tutta la storia del capitalismo) fra la libertà economica e l’esigenza di assicurare condizioni di benessere al più gran numero di cittadini. 

In questo nuovo contesto, Berlusconi è, senza dubbio, un uomo del passato. Ma la sua candidatura ha suscitato reazioni spropositate. Non sta scritto da nessuna parte che le istituzioni siano appannaggio esclusivo degli esponenti del vecchio “arco costituzionale” (e della vecchia Italia). Specie se si considera che il centro destra è maggioranza relativa in Parlamento. Oltretutto, è ora di guardare in faccia la realtà: Berlusconi non è il diavolo, e per quanto sia divisivo, discusso e distante idealmente dal Pd, con il Pd governa insieme da dieci anni. È, infatti, dalla nascita del governo Monti, dopo l’esplosione della crisi del debito, che l’Italia vive di “larghe intese”, di quella collaborazione tra diversi che si fonda sulla consapevolezza della gravità della crisi. E meno male che c’è Berlusconi. Visto che in Italia manca quel forte partito liberaldemocratico di destra che (di solito) è presente nelle democrazie avanzate. Giorgia Meloni non ha mai smesso di strizzare l’occhio alle frange più estreme della destra e la Lega di Matteo Salvini resiste alla prospettiva di proseguire la marcia di avvicinamento al Ppe (che le consentirebbe di diventare il perno di un centrodestra moderato, pienamente legittimato come coalizione di governo) e, come molti nazionalisti e populisti conservatori, considera il despota russo Putin un punto di riferimento. E’ questo il nostro problema, non Berlusconi. Anzi, Forza Italia rappresenta, a destra, un argine alla deriva sovranista di Salvini e Meloni. Berlusconi è, in altre parole, la garanzia che i “barbari” della destra affrettino il loro processo di “romanizzazione” (accettino cioè una piattaforma europeista e liberaldemocratica). E visto che è proprio qui, sull’Europa, che tocchiamo la più grande delle ambiguità del nazional-conservatorismo nostrano, il futuro dell’Italia potrebbe dipendere (ancora) dalle scelte e dalla leadership dell’ex Caimano. Specie nel caso di una vittoria della destra alle prossime elezioni.

Ma se Berlusconi è essenziale per sostenere il governo Draghi (come ai tempi dei governi Monti, Letta e del Patto del Nazareno), rappresenta la destra democratica e liberale (sia in Italia che in Europa nella coalizione Ursula) ed è il garante dell’affidabilità di una destra in prevalenza filo russa e antieuropea, come si fa a dire che la sua candidatura al Quirinale è uno scandalo? Berlusconi è quello che è e può, ovviamente, non piacere, ma Forza Italia rappresenta qualcosa di gran lunga più affidabile della deriva sovranista ed etno-nazionalista capitanata da Salvini e Meloni.  Non lo voterei. L’ho già detto: toccasse a me, sceglierei Draghi. Ma la candidatura di Berlusconi non è uno scandalo. Non ce la farà a diventare presidente, ma la sua corsa al Colle più alto potrebbe, chissà, spianare la strada ad un patto largo e condiviso. 

Alessandro Maran è già vicecapogruppo al Senato del Pd

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