L'assedio mediatico-giudiziario a Matteo Renzi

Ermes Antonucci

L’inchiesta sulla fondazione Open è solo l’ultimo di una lunga serie di procedimenti penali aperti nei confronti dell’ex premier, dei suoi familiari e collaboratori, e caratterizzati da frequenti anomalie. Un modello di gogna che corrode la democrazia

Visto che il termine “perseguitato” viene ormai usato in maniera inflazionata, e a volte anche impropria, useremo un altro termine, meno divisivo ma in grado di descrivere la realtà con obiettività ed efficacia: “attenzionato”. Ecco, non ci sono dubbi che dal momento della sua ascesa politica Matteo Renzi sia stato “attenzionato” in modo particolare dalla magistratura italiana. Questa attenzione ha preso le forme di una valanga di procedimenti penali aperti da svariate procure del paese nei confronti suoi, dei suoi familiari e dei suoi più stretti collaboratori e amici (il cosiddetto “giglio magico”), il più delle volte caratterizzati da gravi anomalie: intercettazioni a strascico, sequestri illegittimi di documenti, ripetute violazioni del segreto investigativo, pubblicazione sui giornali di atti penalmente irrilevanti, gogna mediatico-giudiziaria. L’inchiesta sulla fondazione Open è solo l’ultimo prodotto dell’attenzione della magistratura al “giro renziano”, che parte da lontano.

   
Neanche il tempo di giurare da presidente del Consiglio (il 22 febbraio 2014) e agli inizi di marzo Renzi si ritrova coinvolto in un’indagine aperta dalla procura di Firenze sulla base di una serie di esposti presentati da un dipendente del comune di Firenze. L’accusa nei confronti di Renzi è di aver soggiornato, per un periodo in cui era sindaco di Firenze, in un appartamento a pochi passi da Palazzo Vecchio, ospite di Marco Carrai, imprenditore e suo amico di vecchia data. Lo sputtanamento sui giornali è assicurato e puntualmente avviene (si ricordano, in particolare, le prime pagine di Libero). Beppe Grillo, leader del Movimento 5 stelle, all’epoca ancora fieramente anti casta, decide di cavalcare il caso scatenando la solita gogna social: “Perché Carrai ti pagava la casa? #RenziRispondi”. Pochi mesi dopo, la vicenda sul piano giudiziario si chiude nel nulla: la procura chiede e ottiene l’archiviazione dell’inchiesta. Nessun reato, nessuno scambio di favori, ma solo un gesto di cortesia tra due amici. Viene archiviata anche un’altra serie infinita di accuse rivolte sempre dallo stesso dipendente comunale nei confronti di Renzi (peculato, abuso d’ufficio e corruzione). Alla grande visibilità mediatica ottenuta dalle accuse all’inizio della vicenda si sostituisce il silenzio degli organi di informazione. 

  
Dalla metà del 2014 le attenzioni della magistratura cominciano a concentrarsi sui genitori del presidente del Consiglio, Tiziano Renzi e Laura Bovoli, in particolare sulla loro attività imprenditoriale, proprio mentre – lo ricordiamo per completezza di ricostruzione storica – Matteo fa irritare l’Associazione nazionale magistrati per alcune sue iniziative nel campo della giustizia. Il governo riduce le ferie dei magistrati e introduce un limite massimo ai loro compensi, in linea con quanto previsto per i dipendenti pubblici. L’Anm non la prende bene e denuncia “la gravità di una iniziativa unilaterale del governo”. Con un decreto, poi, Renzi abbassa l’età pensionabile delle toghe da 75 a 70 anni, scatenando nuovamente le ire del sindacato dei magistrati. Agli inizi del 2015 la maggioranza di governo approva pure la riforma della responsabilità civile dei magistrati (peraltro imposta da una serie di condanne della Corte di giustizia Ue). Piccole modifiche, ma che fanno di nuovo arrabbiare le toghe. Durissimo il giudizio del presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli, secondo cui la riforma ha un “valore di tipo politico” e con essa si è “voluto mandare un messaggio” ai magistrati: “Si tenterà di intimidire il giudice, anche se i giudici non si lasceranno intimidire”. 

   

   
E’ in questo contesto di forti tensioni tra il governo e la magistratura che nascono le inchieste nei confronti dei genitori del premier Renzi. La procura di Genova apre un’indagine nei confronti di Tiziano Renzi con l’accusa di bancarotta fraudolenta per il fallimento di una società di distribuzione di pubblicità e giornali con sede a Genova, di cui il padre del premier era stato socio. L’indagine dei pm (subito rilanciata dai giornali) si estende ben presto anche ad altre società gestite in passato dai genitori del premier. Così il Fatto quotidiano, in prima fila nell’alimentare la gogna nei confronti di Tiziano Renzi e Laura Bovoli, sintetizza il metodo seguito dai magistrati genovesi: “Non è soltanto per un fallimento di tre anni fa, come lamenta Tiziano Renzi.

 

Il fango, il setaccio e il ventilatore. Il metodo: prima si sequestrano tutti i documenti, poi li si studiano a fondo per trovare il reato. Quindi le notizie, anche coperte da segreto, anche penalmente irrilevanti, arrivano sui giornali

   

Gli accertamenti della procura di Genova stanno ricostruendo l’intera vita imprenditoriale del padre del premier. Tutte le società nate nella casa di Rignano sull’Arno, i passaggi di proprietà, i rapporti tra i singoli soci, la rete di contatti, gli scambi commerciali. Tutto. Un lavoro che porta almeno fino al 2006”. 

  
Insomma, tutta la vita imprenditoriale dei genitori dell’allora presidente del Consiglio viene passata al setaccio. L’indagine a Genova, dopo la gogna, finisce con un’archiviazione silenziosa, su richiesta degli stessi pm. L’opera di setaccio, però, porta alla nascita di altri procedimenti a Firenze e a Cuneo. E’ la procura fiorentina, con il procuratore aggiunto Luca Turco, a dare la svolta alla vicenda, tanto da chiedere e ottenere dal gip nel febbraio 2019 gli arresti domiciliari nei confronti dei genitori dell’ormai ex premier Renzi, misura poi revocata dal tribunale del Riesame dopo 18 giorni. Si aprono due processi, uno per bancarotta fraudolenta per il fallimento di tre cooperative (ora in dibattimento), un altro per false fatture (in primo grado i coniugi Renzi sono stati condannati a un anno e nove mesi ciascuno). A Cuneo, Laura Bovoli è stata invece rinviata a giudizio per concorso in bancarotta fraudolenta. 

  
Nel frattempo sono accadute cose ancora più singolari. Il 10 luglio 2015 il Fatto quotidiano pubblica in prima pagina il contenuto di un’intercettazione tra Matteo Renzi, all’epoca premier in carica, e il generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi (comandante interregionale a Firenze), risalente ad alcuni mesi prima, in cui Renzi – non ancora asceso a Palazzo Chigi – esprimeva giudizi non lusinghieri sull’allora premier Enrico Letta. Un’intercettazione, quindi, dal contenuto del tutto penalmente irrilevante. Com’è finita sulla prima pagina del giornale preferito dalle procure? 

  
Adinolfi era stato indagato per corruzione nell’ambito dell’indagine Cpl Concordia, aperta dai pm di Napoli, Henry John Woodcock, Celeste Carrano e Giuseppina Loreto, con il supporto dai carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico), guidati dal capitano Gianpaolo Scafarto. Concentrandosi sulla “rete relazionale” del generale, gli inquirenti erano arrivati a intercettare le conversazioni amichevoli tra quest’ultimo e il segretario del Pd (di lì a poco premier) Matteo Renzi, ma anche altri esponenti del cosiddetto “giglio magico”, come Dario Nardella (sindaco di Firenze) e Luca Lotti. Messaggi, telefonate, ma anche un paio di cene in un ristorante romano, con tanto di cimici del Noe sotto al tavolo. Dopo mesi di intercettazioni sono gli stessi pm a rendersi conto che nei confronti di Adinolfi non è emerso alcun elemento a sostegno delle accuse, così chiedono e ottengono l’archiviazione della sua posizione. Gli atti con le intercettazioni irrilevanti riguardanti Renzi, coperte da omissis, vengono inviati per competenza a Roma, dove anche il procuratore Giuseppe Pignatone archivia la posizione di Adinolfi per altre vicende. Quando però su gran parte dell’inchiesta i magistrati di Napoli vengono dichiarati incompetenti e il fascicolo sulla Cpl Concordia viene inviato alla procura di Modena, l’informativa del Noe viene trasmessa agli inquirenti di Modena senza i necessari omissis. L’intercettazione tra Adinolfi e Renzi, non è chiaro attraverso quali vie, finisce per essere pubblicata da Marco Lillo sul Fatto. La procura napoletana e il Consiglio superiore della magistratura aprono fascicoli volti a chiarire le dinamiche dell’accaduto, di cui in seguito non si avranno più notizie. Intanto, però, Matteo Renzi è stato travolto da una nuova ondata di fango e di polemiche politiche, per un’intercettazione che sarebbe dovuta rimanere riservata. 

  
Alla fine del 2016 scoppia il “caso Consip”, segnato da anomalie ancora più inquietanti. A Napoli i pm Henry John Woodcock, Celeste Carrano (sempre loro) ed Enrica Parascandolo, sempre con il supporto del Noe, aprono un’indagine su presunti appalti truccati all’ospedale Cardarelli. Nel mirino c’è la società dell’imprenditore Alfredo Romeo. Alcuni dipendenti sono infatti sospettati di avere dei contatti con la camorra. Nel dicembre 2016 l’inchiesta si allarga a Roma e si estende alla Consip, la centrale unica per i servizi della pubblica amministrazione. In particolare, i pm si concentrano su alcune presunte irregolarità nell’aggiudicazione dell’appalto Facility Management 4, dal valore di 2,7 miliardi di euro, di cui Romeo si è aggiudicato alcuni lotti.

    
Il 22 dicembre 2016 ecco lo scoop del solito Marco Lillo sul Fatto quotidiano: “La soffiata, gli appalti e papà Renzi. Indagato il comandante dell’Arma”. Il quotidiano rivela l’iscrizione sul registro degli indagati del comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento, con l’accusa di aver detto all’allora presidente Consip, Luigi Ferrara, che c’era un’indagine in corso riguardante Romeo e averlo invitato a non parlare troppo al telefono. Il Fatto rivela anche il contenuto di alcune dichiarazioni rese agli inquirenti dall’allora amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni. Anche lui avrebbe detto di aver saputo dell’esistenza dell’indagine. Tira in ballo Del Sette, ma anche il ministro dello Sport Luca Lotti e il generale dei Carabinieri Emanuele Saltalamacchia. Come hanno fatto queste notizie, coperte da segreto investigativo, a finire sul Fatto quotidiano? Nessuno lo sa, ancora oggi.

   
Il quotidiano diretto da Marco Travaglio segnala anche che nell’indagine è coinvolto pure un imprenditore di Scandicci, Carlo Russo, in buoni rapporti con Tiziano Renzi. “Sarebbe interessante capire se ci sono rapporti triangolari tra Tiziano Renzi, Carlo Russo e Alfredo Romeo”, scrive Lillo. Il filone di indagine viene trasmesso per competenza alla procura di Roma e poche settimane dopo ecco la notizia che tutti aspettavano: anche Tiziano Renzi è indagato nell’inchiesta Consip per traffico di influenze illecite, con l’accusa di essersi dato da fare, insieme a Russo, per facilitare le manovre di Alfredo Romeo. 

  
Visto che però l’inchiesta continua a essere un colabrodo, con continue fughe di notizie, nel marzo 2017 la procura di Roma decide di revocare ai carabinieri del Noe le indagini sul caso Consip, alla luce delle “ripetute rivelazioni di notizie coperte da segreto” istruttorio. Non solo, esaminando il materiale investigativo prodotto a Napoli, i magistrati romani scoprono una serie di gravi incongruenze tra quanto affermato in alcune informative dai carabinieri del Noe e quanto effettivamente emerso dalle indagini. Si scopre, ad esempio, che una frase attribuita a Romeo, riguardo a un incontro con Tiziano Renzi, era stata in realtà pronunciata dall’ex parlamentare di An e collaboratore di Romeo, Italo Bocchino, e che quest’ultimo non si riferiva neanche a Tiziano, ma al figlio Matteo, da lui incontrato per ragioni politiche che nulla avevano a che fare con gli affari di Romeo. I pm capitolini, inoltre, accertano come falsa anche la tesi avanzata da Scafarto circa il coinvolgimento di personaggi appartenenti ai servizi segreti nel corso delle indagini.

  

Un’altra fuga di notizie. L’accusa di traffico di influenze illecite, un reato molto fumoso. L’inchiesta Open, che nel corso del tempo si estende fino a coinvolgere anche Renzi, Lotti (accusato di corruzione), Boschi e svariati imprenditori. I documenti penalmente irrilevanti depositati tra gli atti d’indagine e pubblicati da alcuni giornali

   

Qualche mese dopo la procuratrice di Modena Lucia Musti, alla quale da Napoli era stato trasmesso per competenza uno stralcio dell’inchiesta Cpl Concordia, riferirà al Csm le frasi rivoltele in alcuni incontri dal capitano del Noe Scafarto e dal colonnello Sergio De Caprio: “Dottoressa, lei, se vuole, ha una bomba in mano. Lei può far esplodere la bomba. Scoppierà un casino. Arriviamo a Renzi”. Nel corso dell’audizione al Csm, Musti racconterà anche di aver visto Scafarto e De Caprio particolarmente “spregiudicati” e come “presi da un delirio di onnipotenza”.

  
Nel frattempo era avvenuta l’ennesima fuga di notizie, con la pubblicazione (il 16 maggio 2017) sempre sul Fatto quotidiano del contenuto di una telefonata intercettata dagli investigatori napoletani tra Matteo Renzi e suo padre Tiziano. Anche in questo caso una conversazione del tutto penalmente irrilevante (“Babbo, questo non è un gioco, devi dire la verità, solo la verità”, dice Matteo Renzi al padre). Anche in questo caso, però, l’intercettazione finisce sul quotidiano di Travaglio (in anticipazione del nuovo libro di Marco Lillo), e la gogna nei confronti dei Renzi è di nuovo assicurata. 

  
Risultato di questo delirio mediatico-giudiziario (che in un paese normale avrebbe suscitato almeno qualche riflessione sullo stato della giustizia, e forse anche dell’informazione): lo scorso settembre, Tiziano Renzi è stato rinviato a giudizio con l’accusa di traffico di influenze illecite (prosciolto da due accuse di turbativa d’asta e da un altro episodio di traffico di influenze), insieme all’ex parlamentare Italo Bocchino e agli imprenditori Carlo Russo e Alfredo Romeo. Un reato, quello di traffico di influenze illecite, così fumoso da essere stato definito una “boiata pazzesca” dal professor Tullio Padovani, tra i massimi esperti di diritto penale in Italia, in un’intervista rilasciata a questo giornale alcuni anni fa. Lotti e Saltalamacchia sono stati rinviati a giudizio per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento. Del Sette è stato condannato in primo grado a dieci mesi (con pena sospesa) per le stesse accuse. Per le anomalie emerse nello svolgimento delle indagini a Napoli, sono invece stati rinviati a giudizio Gianpaolo Scafarto e il colonnello Alessandro Sessa. Per Scafarto l’accusa è di rivelazione di segreto, falso e depistaggio, mentre per Sessa l’accusa è di depistaggio. 

  
Si arriva, così, all’ultimo botto giudiziario, quello riguardante l’ex fondazione renziana Open, di cui si sta tanto parlando nelle ultime settimane. In realtà, il botto in questo caso esplode il mattino del 26 novembre 2019, quando la Guardia di Finanza esegue in pompa magna una maxi operazione con perquisizioni e sequestri in tutta Italia nei confronti degli ex vertici della fondazione Open, chiusa nel 2018, e di imprenditori che nel corso degli anni l’hanno finanziata. A portare avanti l’indagine sono i pm fiorentini Luca Turco (lo stesso dell’inchiesta sui genitori di Renzi) e Antonino Nastasi, coordinati dal procuratore capo Giuseppe Creazzo. 

  
L’inchiesta, che inizialmente riguarda Alberto Bianchi e Marco Carrai, rispettivamente ex presidente e componente del consiglio direttivo di Open, nel corso del tempo si estende fino a coinvolgere anche Matteo Renzi, Luca Lotti, Maria Elena Boschi e svariati imprenditori. Secondo le accuse dei pm fiorentini, la fondazione sarebbe stata una vera e propria “articolazione di partito”, impiegata come strumento di finanziamento illecito, tanto da rimborsare spese ad alcuni parlamentari e mettere a loro disposizione carte di credito e bancomat. I vertici della fondazione avrebbero anche agito per favorire gli interessi dei finanziatori, intercedendo con il governo. 

  

Firenze, murales di TV Boy raffigurante Renzi-Zombie affisso nei pressi della Stazione Leopolda ( Fabio Cimaglia/LaPresse) 
     

Ciò che è certo, per il momento, è il modo piuttosto disinvolto, e secondo alcuni giudici illegittimo, con cui i pm hanno fatto ricorso ai provvedimenti di perquisizione e sequestro di pc e documenti nei confronti di alcune persone coinvolte nell’inchiesta. Questi provvedimenti, infatti, sono stati annullati ben quattro volte dalla Corte di Cassazione: due volte nel caso di Carrai e altre due volte nei casi di sequestro di documenti, computer e materiali informatici eseguiti nei confronti dell’imprenditore Davide Serra (non indagato) e di diversi componenti della famiglia Aleotti, proprietaria del gruppo Menarini (anch’essi non indagati). Nell’annullare con rinvio il sequestro nei confronti di Carrai, i giudici di Cassazione hanno evidenziato come i pm avessero “data per scontata” l’equiparazione tra la fondazione Open e un’articolazione di partito. 

  
Nell’annullare, senza rinvio, il sequestro di pc e materiale informatico nei confronti di Serra, i giudici di Cassazione sono andati anche oltre, stabilendo “l’illegittimità di un sequestro avente primari fini esplorativi e volto ad acquisire la notizia di reato in ordine a un illecito non individuato nella sua specificità fattuale”. Per i giudici, infatti, le attività investigative portate avanti dai pm sono risultate “volte non tanto a trarre conferme di ipotesi ragionevolmente formulate, bensì ad acquisire la vera e propria notizia di reato”. Il metodo, in altre parole, è stato quello dell’esplorazione (o del setaccio): prima si sequestrano tutti i documenti, poi li si studiano a fondo per trovare il reato. 

  
Lo scorso 19 ottobre, dopo ben due anni di indagini e di grancassa mediatica giustizialista, la procura di Firenze ha finalmente notificato la conclusione delle indagini preliminari sul caso Open, muovendo accuse nei confronti di 11 persone e 4 società. In particolare, Renzi risulta indagato per finanziamento illecito, insieme all’avvocato Bianchi, agli imprenditori Marco Carrai e Patrizio Donnini, e ai deputati Boschi e Lotti. A quest’ultimo vengono contestati anche due episodi di presunta corruzione.

  
Il cuore della vicenda giudiziaria sembra ruotare attorno alla definizione di ciò che è politico o meno. Un terreno molto scivoloso, se si considera che la funzione principale svolta da Open nel corso degli anni è stata organizzare le varie edizioni della Leopolda, vale a dire non l’evento di una corrente di partito, bensì una manifestazione culturale dedicata alla discussione di argomenti di rilevanza pubblica e politica. Sarebbe sufficiente ricordare le polemiche emerse puntualmente ogni anno per l’assenza di bandiere del Pd (nel 2013 ad esempio l’allora segretario del Pd, Guglielmo Epifani, disse: “La manifestazione dei renziani alla Leopolda è stata organizzata da una fondazione e non dal Pd. Tuttavia, io almeno una bandiera del partito l’avrei messa”). 

  
Ancor più delicato appare essere il terreno su cui si muovono le accuse di corruzione rivolte a Lotti. Quest’ultimo, secondo i pm, si sarebbe adoperato politicamente affinché il Parlamento approvasse o respingesse emendamenti in modo da favorire il gruppo Toto e la British American Tobacco, che poi, per questo, avrebbero finanziato Open. Le perplessità in questo caso non riguardano tanto la destinazione avuta dalle presunte utilità (finite alla fondazione, ma paradossalmente non nelle tasche di Lotti), quanto il ruolo rivestito da Lotti nei procedimenti legislativi in questione. Al deputato, per esempio, viene contestato di essersi adoperato per bloccare un emendamento alla legge finanziaria del 2017 non gradito alla British American Tobacco. Eppure, ha ricordato Lotti in una lettera pubblicata sulla Repubblica, l’emendamento contestato “portava la firma di un parlamentare dell’opposizione e che tecnicamente aveva ricevuto parere negativo del governo, quindi era destinato a essere bocciato”. In altre parole, ha proseguito il deputato, “trattandosi di un emendamento dell’opposizione, anche da un punto di vista politico, la possibilità che potesse essere approvato era molto limitata e quindi nessuno (men che meno io) si è ‘adoperato’ in un verso o nell’altro”. Forse i pm attribuiscono a Lotti poteri sovrannaturali di condizionamento di tutto il Parlamento, su proposte pure presentate da altri e non da lui. 

  
Insomma, l’intera vicenda giudiziaria sembra ruotare attorno ad alcune definizioni fondamentali: quando un’associazione politica può definirsi “fondazione” e quando “articolazione di partito”? Quando un evento è “culturale” e quando è “politico”? Qual è il confine tra “donazione” e “attività di promozione degli interessi” (lobbying, cioè l’abc della politica), da un lato, e “corruzione”, dall’altro? I pm fiorentini sembrano aver fornito risposte molto stringenti a queste domande e non è affatto certo che questa interpretazione delle norme reggerà alla valutazione dei giudici.

 
Anziché soffermarsi su questi interrogativi abbastanza seri, tuttavia, il dibattito pubblico è stato sviato dagli ennesimi schizzi di fango sparati in aria dal ventilatore della gogna mediatico-giudiziaria. 

 
Negli ultimi giorni, il Fatto quotidiano, seguito poi da altri giornali, ha cominciato a pubblicare il contenuto di alcuni documenti depositati dai pm nella chiusura delle indagini sulla fondazione Open. Documenti in molti casi dal contenuto penalmente irrilevante, ma che, non è chiaro per quale ragione, sono stati comunque depositati dagli inquirenti. Tra questi, un’informativa della Guardia di Finanza che contiene gli estratti del conto corrente intestato a Renzi. L’elenco degli incassi legittimamente ricevuti tra il 2018 e 2020 dall’ex premier, sia per le conferenze ma anche per altro, come libri, è così stato pubblicato sui quotidiani, anche se, è stato specificato, questi incassi non sono mai stati “oggetto di indagine”. 

 
Così, mentre il ventilatore del fango si attivava (ed è ancora acceso), nessuno si è posto due domande banali, ma di una certa importanza: perché, se sono penalmente irrilevanti, questi documenti sono stati depositati tra gli atti di indagine? Qualcuno risponderà mai di questo errore? 

 
Dalle risposte a questi interrogativi dipende non tanto il destino giudiziario di Renzi, l’“attenzionato” dalle procure, ma il destino di una democrazia, che dovrebbe essere liberale e non giudiziaria.