Giuseppe Conte e Beppe Grillo (Ansa)

Il Foglio del weekend

Le convivenze difficili

Francesco Cundari

Vedremo come finirà tra Grillo e Conte. Ma il volemose bene non sempre ha funzionato. Ne sanno qualcosa Walter Veltroni e Massimo D'Alema

Come finirà tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte – ammesso e non concesso che sia davvero ricominciata – lo vedremo presto. Quello che colpisce sin d’ora, e che obiettivamente non lascia molto spazio per l’ottimismo, è la tempistica: la rapidità con cui si è passati dallo scambio di contumelie tra quello senza “visione politica” e quello che voleva fare il “padre padrone” all’annuncio dell’accordo. E soprattutto dall’annuncio dell’accordo, con apposita discesa del comico nella capitale, alla smentita della discesa e dell’incontro, che a un certo punto non sembrava essere più nemmeno in programma. Finché giovedì la scena non è cambiata di nuovo: Grillo ha portato Conte al ristorante, però dalle parti di casa sua, a Marina di Bibbona. Una tempistica singolare perché di solito il momento degli insulti e delle reciproche accuse – per non parlare della fase successiva, in cui si fa di tutto per evitare persino d’incrociarsi – arriva al termine di una lunga e difficile convivenza al vertice. Non all’inizio.

 

È questo che rende difficile credere al grande rilancio del progetto contiano, grillino o grillocontiano: che non è ancora partito e già stiamo a questo punto. È difficile persino appassionarsi alla trama, un po’ come se “La guerra dei Roses” – l’indimenticabile film sulla crisi matrimoniale tra Micheal Douglas e Kathleen Turner – cominciasse direttamente dal cagnolino al forno e dal pesce al piscio, senza nemmeno passare dal corteggiamento, dalla tenerezza e dalla passione dei primi incontri. Non è così che funziona, né in amore né in politica.   

 

All’inizio, al contrario, è tutto uno scambiarsi attestati di reciproca stima e amicizia, una corale smentita di quei giornalisti pettegoli che insistono a disegnare ostilità assolutamente inesistenti, tutto un palleggio di complimenti e salamelecchi, cementati da una profonda condivisione di programmi e di valori. È tutto un “caro Walter” e un “caro Massimo”. Perché una cosa è sicura: se l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, non c’è luogo al mondo in cui la virtù sia stata più omaggiata che al vertice della sinistra italiana. Tra le tante espressioni d’affetto rimaste negli annali, come dimenticarsi di quando Walter Veltroni, da segretario dei Ds, definì l’esecutivo guidato da Massimo D’Alema, in quel momento presidente del suo partito, un “governo amico”. Eppure ciascuno dei due è sempre stato ben attento a salvare le forme.  

 

Probabilmente è anche per questo che l’assalto di Matteo Renzi al vertice del Pd, con la parola d’ordine della rottamazione, fece tanto scandalo, presso gli ex democristiani come presso gli ex comunisti, dopo decenni di lotte intestine e inimicizie al limite del patologico, paragonabili a quelle tra l’ispettore capo Charles Dreyfus e l’ispettore Clouseau, sempre negate, dissimulate o raccontate come riguardanti esclusivamente i destini del paese, non certo le modeste persone dei protagonisti (con qualche eccezione che con l’andare del tempo, e l’avanzare dell’età, si è fatta via via più disinibita). 

 

Può sembrare paradossale, considerando la quantità di dichiarazioni, interviste, persino libri che ciascuno dei passati leader del centrosinistra ha dedicato, nella fase discendente della propria parabola, a spiegare come e perché la discesa sia stata tutta colpa di quegli altri – traditori, pugnalatori, sabotatori annidati nel suo stesso partito o al massimo nella stessa coalizione – e molto spesso di uno in particolare. Eppure, accanto a questa autentica ossessione per le oscure manovre e le trame dei propri rivali interni, ha resistito sempre una sorta di pudore, che spingeva ad ammantare tutto, perlomeno, da grande discussione politica, com’era naturale che fosse da parte di leader che dichiaravano di aborrire più di ogni altra cosa la personalizzazione della politica – giudicata come uno dei peggiori frutti del berlusconismo – e poi, però, sotto sotto, non la finivano mai di personalizzare.

 

La chiave di questo paradosso era probabilmente in quella concezione del leader sacrificale che univa in qualche modo le tradizioni comunista e democristiana (diverso e più laico era l’atteggiamento, nonché la prassi, dei socialisti). Una concezione secondo cui il leader non lo faceva mai per piacer suo, ma sempre per il bene superiore del partito e del paese: l’incarico, si trattasse di fare il capo dello stato o il capogruppo dell’ultimo consiglio comunale di provincia, non era mai esplicitamente richiesto, ma sempre accettato come una dura incombenza, con autentico tormento interiore e nobile spirito di sacrificio. Di conseguenza, la carriera del dirigente era raccontata come un’infinita serie di conseguenze inintenzionali, un’incredibile carambola di effetti collaterali imprevisti e imprevedibili, nella lunga vita di sacrifici che con encomiabile spirito di servizio aveva deciso di affrontare. “Se gli amici me lo chiedono”, era la risposta di ordinanza con cui il politico democristiano dichiarava la propria disponibilità a una candidatura, dipingendosi sul volto l’espressione di serena rassegnazione con cui ci si mette nelle mani della provvidenza. “Farò quello che è meglio per il partito”, era l’equivalente in uso nel Pci.

 

Non può stupire dunque che agli eredi dell’una come dell’altra tradizione apparisse quasi sconvolgente, per non dire sacrilega, l’intervista a Repubblica con cui, il 29 agosto 2010, il giovane sindaco di Firenze dichiarava: “Non faccio distinzioni tra D’Alema, Veltroni, Bersani. Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi”. Per non parlare di quando rivendicava “un’ambizione smisurata”, parola tabù tanto per il lessico democristiano quanto per il lessico comunista, proprio nel discorso con cui in direzione, raccogliendo l’invito quasi unanime dei suoi componenti, traduceva la nobile intenzione di “far uscire l’Italia dalla palude” nella prosaica esigenza di far uscire Enrico Letta da Palazzo Chigi, ovviamente per prenderne il posto.

 

Si concludeva così il primo tempo – ma forse sarebbe più corretto dire la prima stagione – della difficile convivenza tra Renzi e Letta, cominciata con un hashtag (quel terribile #enricostaisereno lanciato durante un’intervista televisiva) e finita, temporaneamente, con lo scambio della campanella a Palazzo Chigi: il più rapido passaggio di consegne della storia, con Letta che per tutta la durata della cerimonia – circa dieci secondi – evita persino di guardare in faccia l’uomo che gli sta accanto, e che sorride spensierato davanti a fotografi e telecamere, al contrario di lui.

 

Era ovvio a chiunque avesse un minimo di conoscenza della politica italiana, o di un qualunque genere di telenovela, sceneggiato, fiction o altra forma di narrazione seriale a basso costo, che l’antagonista sconfitto e mandato in esilio al termine della prima stagione, in un modo o nell’altro, avrebbe fatto il suo clamoroso ritorno in qualche punto delle stagioni successive. E che il duello sarebbe ricominciato. Del resto, le convivenze difficili hanno caratterizzato da sempre la storia della politica italiana, sin dagli albori della Repubblica. 

 

Al terzo congresso della Democrazia cristiana, che si svolse a Venezia ai primi di giugno del 1949, per esempio, il leader dell’ala sinistra Giuseppe Dossetti tenne un discorso molto duro nei confronti del governo, guidato da Alcide De Gasperi, esortandolo ad avere verso i ceti conservatori un atteggiamento almeno “altrettanto virile” – abbiate pazienza, erano altri tempi, il politicamente corretto non era stato ancora inventato – di quello che il partito pretendeva nei confronti di socialisti e comunisti. Un discorso che intendeva essere “di pungolo”, naturalmente. Immancabile topos del rapporto tra leader della minoranza che richiama alla coerenza e alla radicalità dei principi, in contrapposizione al leader di maggioranza che in quel momento tali principi è chiamato a rendere compatibili con le complicate dinamiche di governo (tanto più in un governo di coalizione). E non meno tipica era stata nell’occasione l’argomentazione contenuta nella stizzita replica di De Gasperi: “È vero che ogni governo ha bisogno di un certo stimolo, se volete, di un pungolo (non mi piace la parola, perché ricorda i buoi), ma comunque io accetto anche il pungolo ad una condizione, che a un certo momento quelli che stanno pungolando scendano dal carro e si mettano anch’essi alla stanga”. 

 

Nessun pungolo però si è rivelato più insistente e instancabile di quello rappresentato, nella Seconda Repubblica, dalla sinistra radicale, capace di sottoporre entrambi i governi guidati da Romano Prodi (nel 1996 e nel 2006) a una scarica di stimoli talmente intensa e prolungata da somigliare a un elettroshock. La lenta agonia dell’ultimo esecutivo del Professore, in particolare, è rimasta nella memoria collettiva quale monito perpetuo contro le cosiddette “coalizioni coatte”, con le loro interminabili delegazioni ministeriali, i loro vertici fiume, il programma elettorale di 281 pagine, le infinite, sfibranti e inconcludenti discussioni interne. Primo ma forse non unico caso – a giudicare da quanto stanno combinando in questi giorni i Cinque stelle sulla riforma della giustizia – di governo in cui i ministri manifestavano nel pomeriggio contro gli stessi provvedimenti da loro votati al mattino a Palazzo Chigi.

 

Come tutte le formazioni politiche in via di decomposizione, infatti, anche i partiti della cosiddetta sinistra arcobaleno erano entrati ben presto in una spirale autodistruttiva incontrollabile, a cominciare dalle formazioni neocomuniste (ce n’erano ben due: Partito della Rifondazione comunista, guidato da Franco Giordano e Fausto Bertinotti, e Partito dei comunisti italiani, guidato da Oliviero Diliberto e Armando Cossutta). A guadagnare il centro della scena, nel febbraio del 2007, furono in particolare due dissidenti, espulsi o in via di rapida espulsione dai rispettivi partiti, Fernando Rossi (ex Pdci) e Franco Turigliatto (corrente trotzkista di Rifondazione), decisi a non votare la fiducia al governo sulla politica estera condotta dal ministro Massimo D’Alema (considerato troppo filo-atlantico, ovviamente). Ironia della storia, Rifondazione era il partito responsabile della caduta del primo governo Prodi, mentre il Pdci era nato da una scissione di Rifondazione proprio in contrasto su quella scelta, e ora entrambi si trovavano alle prese con le proprie frange più radicali, decise a ripetere il copione del ’98. 

 

Le difficoltà dell’esecutivo, tuttavia, erano figlie di molte debolezze, nemici non ne mancavano e ognuno poteva scegliersi quello che preferiva. “Oggi il neocentrismo è il disperato tentativo di chiudere la porta all’irruzione della società nella politica, il neocentrismo è l’autismo del Palazzo, è il potere senza consenso, la cappa di piombo della democrazia che da malata diventa morta”, scandiva ad esempio in quei giorni, alla Camera, il capogruppo di Rifondazione comunista, Gennaro Migliore (per i lettori più giovani: no, non si tratta di un omonimo dell’attuale parlamentare di Italia viva; si tratta proprio della stessa persona). Ostentava serafica tranquillità, invece, il ministro della Giustizia, Clemente Mastella: “I governi che pensi essere solidi a volte cadono prima, mentre quelli malaticci vivono più a lungo”. Il secondo governo Prodi, per la cronaca, cadrà meno di un anno dopo, nel gennaio 2008, in seguito alla decisione di Mastella di ritirargli la fiducia.

 

Nessuno però toglierà mai dalla testa del Professore che in entrambi i casi i veri responsabili della sua caduta non fossero gli esecutori materiali (Bertinotti nel primo caso, Mastella nel secondo), ma proprio i leader del principale partito della sua coalizione, che più di ogni altro avrebbero dovuto difenderlo (Massimo D’Alema nel 1998, Walter Veltroni dieci anni dopo). Prodi, Veltroni, D’Alema: tre leader molto diversi, ciascuno a suo tempo costretto dalle necessità della politica a prolungate convivenze con gli altri due, intervallate da insincere dichiarazioni di abbandono del campo e assoluto disinteresse per la politica, seguite sistematicamente da nuovi e sempre meno fortunati ritorni in scena, ora al vertice del governo, ora al vertice del partito, ora magari come candidati al vertice delle istituzioni: quel Quirinale che fin qui è sempre sfuggito a ognuno di loro, anche per merito degli altri. 

 

Osservazione quest’ultima che nulla toglie, naturalmente, alla stima profondissima e all’amicizia antica che li lega indissolubilmente, per non parlare della lunga condivisione di programmi e di valori, della solidarietà umana e dell’affetto sincero che solo giornalisti pettegoli e male informati potrebbero mai pensare di mettere in dubbio.