Lo scudo anticinese. Così Draghi si prepara a ristrutturare il golden power

Valerio Valentini

Il premier in sintonia con Biden: serve potenziare i poteri speciali contro le operazioni finanziarie a rischio e l'arrembaggio di Pechino. Più uomini e maggiore coordinamento coi servizi segreti. Il modello del Cfius di Washington e i vecchi dossier di Garofoli. 

L’idea a Palazzo Chigi circolava da tempo. Solo che poi il G7, il vertice Nato, i colloqui con Joe Biden hanno fatto il resto, dando il senso di un’urgenza che forse non tutti coloro che parlano delle virtù del multilateralismo filocinese, a sinistra e nel M5s, hanno chiara. E dunque sì, Mario Draghi sembra essersi deciso a ristrutturare gli uffici governativi che si occupano di Golden power. Con un obiettivo: creare un dipartimento che lavori in modo coordinato e organico sulla difesa degli interessi strategici, definendo perimetri chiari d’intervento e promuovendo un meccanismo di screening degli investimenti stranieri in Italia costante e aggiornato. Insomma, un organismo che s’ispiri al Cfius, il Comitato per gli investimenti stranieri statunitense, che in America opera da quasi mezzo secolo, essendo stato fondato nel 1975. Un modello, a giudizio dei tecnici di Palazzo Chigi, che è forse l’unico che può consentire di conciliare le ragioni del libero mercato con gli interessi diplomatici.

 

Perché la strettoia, vista con gli occhi del governo, è di quelle notevoli. Da un lato c’è da mantenere gli impegni presi con l’Unione europea, e definiti nel Pnrr, rispetto alla necessità di una nuova legge sulla concorrenza: un provvedimento che dovrebbe avere cadenza annuale sin dal 2009, e che invece dall’epoca ha visto la luce una sola volta, nel 2017. Dall’altro, però, c’è da tenere conto del nuovo paradigma geopolitico che negli incontri di Carbis Bay e di Bruxelles dei giorni scorsi è stato sancito: una nuova cortina di ferro, con l’asse eurotalantico di qua e l’orbita di Pechino di là, ma con confini fisici assai più sfumati e cangianti, come del resto lo sono i confini della finanza e dell’economia digitale, ovvero i settori su cui gli Usa si aspettano un rafforzamento delle difese dai loro alleati.

 

E l’Italia, da questo punto di vista, è senz’altro un osservato speciale, per via delle sbandate grilloleghiste sulla Via della Seta che l’hanno resa, o quantomeno l’hanno fatta percepire, come il ventre molle dell’espansionismo cinese in Occidente. Non è un caso che, tra i primissimi atti varati da Draghi al rientro dal vertice del G7, c’è stato l’aggiornamento dell’elenco dei “soggetti inclusi nel perimetro di sicurezza nazionale cibernetica”: in sostanza si è aggiornato un elenco di società, pubbliche e private, che operano in settori considerati sensibili per la sicurezza nazionale (223 le “funzioni essenziali” individuate) e su cui, di fatto, sarà possibile allargare lo scudo del golden power e di altre misure protezionistiche. Il tutto, beninteso, senza  scoraggiare gli investimenti stranieri.

 

E qui sta appunto il senso della novità  su cui si ragiona a Palazzo Chigi: ispirarsi al Cfius statunitense, come del resto è sembrato suggerire, durante un convegno organizzato dalla Camera di commercio italoamericana lunedì scorso, il diplomatico Thomas Smitham,  il più alto in grado all’ambasciata di Via Veneto nell’attesa delle nuove nomine di Biden. E’ una questione di numeri, innanzitutto. Perché il Cfius, specie dopo la sua ristrutturazione avvenuta nel 2018, conta centinaia di dipendenti, laddove il nostro Gruppo di coordinamento, ovvero l’organismo che si occupa dell’esercizio del golden power, è  composto da tre uffici e da altrettanti responsabili che rispondono al Dipartimento per il coordinamento amministrativo (Dica) di Palazzo Chigi. Ma poi, al di là dell’organigramma, ci sono sostanziali differenze che rendono la struttura italiana assai meno efficiente di quella americana. E a individuarle è stato, in tempi non sospetti, proprio la persona che oggi potrebbe intervenire per equiparare i due sistemi.

 

Perché il 10 maggio del 2019, l’allora semplice presidente di sezione del Consiglio di stato, Roberto Garofoli, tenne una relazione sul tema del golden power nel corso di un convegno organizzato dall’Università Roma Tre. In quell’occasione, l’attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, segnalava innanzitutto la mancanza di autonomia del Gruppo di coordinamento, le cui “segnalazioni  sono comunque oggetto di una delibera da parte del Cdm”. Diversamente, dunque, da quanto accade negli Usa, dove gli agenti del Cfius agiscono spesso in modalità preventiva, intervenendo su transazioni sospette anche con atti informali che tendono a dissuadere gli investitori stranieri ritenuti sospetti (quasi sempre cinesi) dal perseguire i loro scopi d’acquisizione di aziende che operano in settori sensibili. E se ciò in Italia non avviene lo si deve alla seconda differenza, pure quella rilevata da Garofoli: “questo Gruppo di coordinamento è privo di un proprio apparato burocratico, stabile e specializzato”. Al contrario, spesso le notifiche su operazioni a rischio avviano una complessa interlocuzione tra i ministeri coinvolti, che di volta in volta attivano determinate strutture, mentre il Cfius può contare sul sostegno stabile della agenzie di intelligence e del dipartimento della Difesa.

 

Ritardi da appianare in fretta, a giudizio dei tecnici di Palazzo Chigi. tenendo anche conto delle nuove richieste di Washington. E cioè la creazione di task force specializzate nell’individuare i settori strategici per ridefinire le catene del valore all’interno degli alleati della Nato: una sorta di braccio proattivo del Cfius, che punti a favorire determinati investimenti strategici, riducendo la dipendenza dell’Occidente dal nemico cinese. Progetti in cantiere da tempo, se è vero che già in epoca gialloverde, quando le deleghe sul golden power erano gestite da Giancarlo Giorgetti, rappresentanti del Cfius vennero ricevuti a Palazzo Chigi per un bilaterale riservato in cui “condividere le best practices”. Poi non se ne fece granché, e quando gli americani se ne risentirono con Giorgetti, lui allargò le braccia: come a dire che gli umori politici nel governo non consentivano azioni più determinate. Solo che ora il quadro politico è cambiato, non solo in Italia. E sulla Cina, con buona pace di Beppe Grillo e Massimo D’Alema, l’orientamento di Draghi è chiaro. E da quello dipenderanno, pare, parecchie delle decisioni future del golden power. Almeno a fidarsi di quel che Garofoli scriveva due anni fa, quando sottolineava, come “elemento che connota il modello statunitense” del Cfius, “la quasi illimitata discrezionalità presidenziale” nel decidere quali operazioni bloccare.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.