tra palazzo chigi e il mef

L'asse Rivera-Giavazzi. Così Draghi nasconde le nomine ai partiti

Una confidenza della Cannata, storica dirigente del Mef, spiega il "metodo Draghi"

Valerio Valentini

La centralità del direttore generale del Tesoro, civil servant dal gran fiuto politico (tra il Colle e Gentiloni). I consigli del responsabile economico di Palazzo Chigi, e quelli di De Gennaro. Dai servizi segreti a Cdp, passando per Ferrovie. Il premier ridefinisce la mappa del potere 

A fidarsi dei racconti che ne fanno i funzionari costretti alla staffetta tra Palazzo Chigi e il Mef, è un po’ “il governo nel governo”. Mario Draghi e Daniele Franco, e i loro rispettivi consiglieri privilegiati: Francesco Giavazzi e Alessandro Rivera. E’ questo il centro di gravità  del potere attorno a cui ruota, con orbite spesso frenetiche, la galassia di faccendieri e leader di partito, ansiosi di carpire qualche indiscrezione, di divinare da un appunto sbirciato, da un’alzata di sopracciglio, da un sospiro, fortune e disgrazie in arrivo. La lunga cavalcata, che con le assemblee dei soci di Ferrovie e Cdp vivrà tra mercoledì e giovedì vivrà i suoi primi clamori, è entrata nel vivo otto giorni fa. Quando Rivera ha ricevuto dalle mani del suo fedele scudiero, Filippo Giansante, le liste coi nomi dei papabili.

 

E’ lui, infatti, il capo della famigerata direzione VII del Mef, Valorizzazione del patrimonio pubblico, l’uomo a cui il direttore generale del Tesoro delega il compito di confrontarsi coi cacciatori di teste per fare una prima scrematura tra i molti pretendenti a guidare le partecipate di stato. Aquilano come Rivera – sia pure del contado marsicano e senza dunque il lignaggio di chi nel cuore del capoluogo può ancora oggi vantare, in ordine sparso, un castello di famiglia, una porta urbica e un quartiere intitolati, antenati che fondarono l’università cittadina e un albero genealogico che risale fino almeno al 1200, a tale Oderisio detto “il Rivera”, signore di Collimento, capitano di Federico II – è stato proprio Giansante, già nei Cda di Sace e Simest e poi in quello di Eni, a imbastire il dossier. Ma se la sua è stata una selezione tecnica, è spettato poi al nobile Rivera passare al vaglio più politico, con una trasversalità di relazioni – rapporti di stima con Giancarlo Giorgetti, che ha nella squadra al Mise quel Giovanni Tria che seppe difendere Rivera dalle  ingiurie dei Casalino Boy, in èra gialloverde, grande confidenza col mondo del Pd e soprattutto con Paolo Gentiloni, e una grande copertura da parte del Quirinale – e un certo senso per la tattica negoziale, che gli consente di stare in equilibrio sopra le intemperanze dei partiti. E magari prepararsi, senza dismettere il mito del civil servant a cui il suo maestro Vincenzo Fortunato lo ha iniziato, al suo futuro prossimo, dato che ad agosto scade il suo mandato.

 

Sull’altro fronte c’è Giavazzi, consulente economico di Palazzo Chigi e tra i pochi a fregiarsi del titolo di “amico”, e che al premier fornisce suggerimenti preziosi. Come quelli che il premier richiede a quei conoscenti di lunga data – da Giuliano Amato a Paolo Scaroni – che tornano preziosi nei momenti decisivi, come quando Gianni De Gennaro, due settimane fa, ha indicato all’ex presidente della Bce il nome di quella Elisabetta Belloni, come quello di un eccellente capo del Dis (una triade cresciuta tutta tra i banchi del liceo Massimo di Roma, tendenza gesuita).

 

Facile immaginare, a fronte di questa autonomia di Draghi, un  risentimento dei leader di partito. Di cui però, almeno per ora, il premier poco si cura. Ha lasciato intendere, allora, che il destino di Fabrizio Palermo alla guida di Cdp è segnato (Dario Scannapieco è molto quotato), incurante delle bizze grilline e conscio forse di come l’apparente fermezza con cui Di Maio insiste nel chiedere un rinnovo di mandato dell’attuale ad serva più che altro a  scaricare su Giuseppe Conte la colpa del mancato rinnovo, nel mentre che il ministro degli Esteri è semmai occupato a promuovere alcuni suoi fedelissimi in Leonardo. Su cui invece il dispiacere Draghi l’ha dato alla Lega: perché Giorgetti ci sperava davvero, nella rimozione di Alessandro Profumo, ma il premier ha spiegato che intende occuparsi solo delle nomine in scadenza. Un campo su cui anche il Pd si muove in ordine sparso, avendo del resto aperto un conflitto con Palazzo Chigi, su tasse e lavoro, con tempismo quanto meno improvvido.

 

E dunque riuscirà davvero Draghi a tenere le nomine che pesano al riparo dalle ingerenze partitiche? “Non sappiamo niente”, mugugnano i ministri di ogni colore. Per questo anche il destino di Fs resta un’incognita a poche ore dall’inizio dell’assemblea odierna. Del resto Rivera è uso a tenere coperti i nomi fino alla fine. E pare che in questo abbia almeno un maestro illustre. Maria Cannata, storica dirigente del Mef, di recente ha raccontato di quando, all’aeroporto di Bruxelles, si vide chiamare dall’allora dg del Tesoro che la rimproverava per quel suo vizio di tenere il cellulare spento e la informava che Vincenzo La Via lasciava l’incarico di direttore del Debito pubblico di Via XX Settembre. “Abbiamo pensato a lei”, si sentì dire. “Accetta, vero?”. Era il 2000. E quel dg del Tesoro si chiamava Mario Draghi. Per dire del perché in tanti, in questi giorni, tengono sempre i cellulari accesi. A partire da chi punta alla guida di Fs. Fino ad ora né l’uscente Gianfranco Battisti né il forse entrante Luigi Ferraris avevano ricevuto telefonate. Ma chissà. 
 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.