Enrico Letta, segretario del Pd (foto LaPresse)

Sono cambiati i tempi e i partiti. Solo il Pd non se n'è accorto

Claudio Cerasa

Un orizzonte di successi mancati. Occupato com’è a fare da argine alla Lega e al populismo degli alleati grillini, il partito di Letta ha perso di vista il suo ruolo cardine nel governo

Enrico Letta è certamente la persona giusta che arriva al momento giusto a guidare con le intenzioni giuste un partito che probabilmente ha scelto l’approccio giusto per non essere d’intralcio a un presidente del Consiglio che il Pd non può che considerare come quello giusto a cui affidare la giusta guida del governo italiano. Apparentemente, il Pd ha tutto quello che gli dovrebbe servire oggi per avere la strada spianata verso un orizzonte pieno zeppo di successi. E una stagione come quella di oggi, in cui l’europeismo non è più in discussione, in cui il populismo non è più trend topic, in cui la scienza non è più sotto minaccia, in cui la democrazia rappresentativa non è più sotto scacco e in cui su molti temi gli avversari sono finiti a dire le stesse cose che il Pd dice da una vita, le condizioni sembrano essere praticamente perfette per garantire a uno dei più importanti partiti progressisti d’Europa un futuro di inevitabili e travolgenti successi. Eppure, a nemmeno tre mesi dal suo arrivo alla guida del Pd, il segretario democratico oggi sembra vivere una fase caotica, complicata, difficile da decifrare

 

E non a causa di ciò che sta facendo il governo Draghi, ma a causa di alcune trasformazioni che il Pd oggi fatica non poco ad accettare. La trasformazione di fronte alla quale il Pd mostra maggiore disagio è certamente quella della Lega e la questione è fin troppo chiara e riguarda il tratto principale dell’identità del Pd: il suo essere un argine. Negli anni – prima ai tempi del Berlusconi versione Caimano poi ai tempi del M5s versione Casaleggio e infine ai tempi della Lega versione Truce – il Pd ha sempre fatto del suo essere un argine contro qualcosa il suo principale tratto identitario e la difficoltà che ha oggi il Pd è quella di presentarsi ancora di fronte ai propri elettori come unico argine alle follie politiche del paese. Una difficoltà testimoniata dal tentativo pressoché quotidiano di Enrico Letta di ricordare agli elettori che la Lega di Matteo Salvini (con cui il Pd è alleato al governo) non è quella che appare di fronte alle telecamere ma è quella che non si vede e che presto o tardi tornerà a essere quella di un tempo.

E’ possibile che Letta abbia ragione ma è altrettanto evidente che quando un partito si trasforma nell’argine unico di qualcosa che forse accadrà in futuro, per tentare di ristabilire alcuni equilibri del passato, quel partito, molto semplicemente, rischia di essere poco sincronizzato con il presente. E lo stesso effetto, in fondo, Letta lo offre in alcune delle occasioni in cui con il suo Pd tenta di fissare alcune bandierine nella maggioranza di governo. Ci si concentra sui diritti, come il ddl Zan, come lo ius soli, come l’immigrazione, come la legge sul suicidio assistito, come la necessità di tassare i ricchi per combattere le diseguaglianze, perché su molti doveri le distanze con la Lega sono meno profonde rispetto al passato.

 

Ma la scelta di Enrico Letta di occuparsi più dell’agenda del Parlamento che dell’agenda del governo ha creato un effetto ottico difficile da negare, che si trova all’origine del senso di disorientamento offerto dal Pd: il Pd quasi si disinteressa dell’agenda di governo per non voler essere d’intralcio a Draghi; ma disinteressandosi dell’agenda di governo, anche per non essere costretto a illuminare alcune discontinuità evidenti con il governo passato, il Pd crea di fatto un vuoto che Salvini riesce più o meno ogni giorno a riempire alzando l’asticella delle sue richieste. E i risultati si vedono. Il governo interviene su Arcuri e Salvini si prende il merito. Il governo interviene sulla Protezione civile e Salvini si prende il merito. Il governo interviene sul coprifuoco e Salvini si prende il merito. Il governo interviene sulle riaperture e Salvini si prende il merito. Il governo interviene sull’Anpal e Salvini si prende il merito. Il rapporto difficile al governo tra Letta e Salvini non nasce dunque da una qualche insanabile frattura tra la Lega e il Pd, ma al contrario nasce dalla notevole difficoltà mostrata finora dal Pd ad adattarsi alla nuova maschera offerta da Salvini. E la presenza di questa maschera, una maschera che almeno all’apparenza fa sembrare Salvini diverso rispetto a quello del passato, rappresenta un problema per il Pd anche a un altro livello, che ci permette di affrontare un tema che più passeranno i giorni e più si presenterà come particolarmente delicato per gli equilibri futuri della maggioranza: le amministrative. E qui la questione è fin troppo semplice e coincide con una domanda secca: siamo proprio sicuri che per il Pd possa avere un senso giustificare le sue alleanze locali con il M5s presentandole come se queste fossero l’unico argine alle destre cattive? E, a corredo del ragionamento, siamo proprio sicuri che a livello locale le alleanze con il M5s siano un punto di forza e non invece uno straordinario punto di debolezza? E, infine, siamo sicuri che gli elettori del Pd, a livello locale, siano più interessati a respingere una minaccia astratta, le destre antieuropeiste, e non siano invece interessati a respingere con forza una minaccia ben più concreta, ovverosia il modello di malgoverno assoluto mostrato nelle città dagli amministratori del M5s?

In estrema sintesi, potremmo dire che i problemi per il giovane Letta oggi sono due e sono complementari: la difficoltà a trasformare il Pd in un partito cardine di un governo, piuttosto che in un partito argine di un avversario, e la difficoltà a comprendere che per giustificare l’alleanza con il M5s oggi serve qualcosa di più solido che l’evocazione pigra della presenza dall’altra parte di una minaccia populista. I tempi sono cambiati, i partiti stanno cambiando e l’unico partito che sembra avere difficoltà a cambiare oggi è quello che ha tutto quello che gli dovrebbe servire per avere la strada spianata verso un orizzonte pieno zeppo di successi. A meno che, naturalmente, il cambiamento che ha in testa Letta, per il suo Pd, non sia quello di posizionare la sinistra italiana, a colpi di tasse di successione, in una posizione esattamente a metà strada tra il modello Corbyn e il modello Sanders. Scelta legittima, ma che a naso rischierebbe di far piangere non solo i cattivissimi ricchi ma anche i poveri e frastornati elettori del Pd. 
 

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.