tra palazzo chigi e il nazareno

Non solo le tasse. Dal Quirinale alla Rai, le ragioni dell'attrito tra Letta e Draghi

Valerio Valentini

Il segretario del Pd rivendica la sua battaglia: "Abbiamo chiarito la differenza tra destra e sinistra". Ma la tensione tra il Nazareno e Palazzo Chigi passa anche per le nomine, e per la sfida verso il Colle. Lo spettro di Monti e Bersani

Lo spettro che s’aggira per i corridoi del Nazareno è quello di Pier Luigi Bersani. Non l’uomo in sé, beninteso, con cui Enrico Letta mantiene rapporti ben più che amicali, ma la sua esperienza che fu, quel suo acquattarsi all’ombra del premier tecnico, votarsi tutto alla responsabilità istituzionale sbiadendo la propria identità. “E non è un caso che con questa proposta sulla tassa di successione abbiamo ribadito la linea di demarcazione tra destra e sinistra, che non sono la stessa cosa”, ripete il segretario. A cui in parecchi, per confortarlo sulla bontà della battaglia intrapresa, fanno anche notare che “Italia viva ha deciso di stare di là, con chi difende i privilegi dell’1 per cento”.

 

Invece Letta vuole stare di quà. E lo vuole perché ricorda bene quel biennio tra il 2011 e il 2013, quando il Pd irrancidì nel sostegno a Mario Monti, perse nel loden la sua spinta propulsiva, fino ad arrivare alla “non vittoria”, agli schiaffoni in streaming da parte dei grillini appena arrivati in Parlamento. E però evidentemente non è questo il ruolo che la commedia assegnava a Letta, nella sceneggiatura che Mario Draghi aveva ricevuto dalle mani di Sergio Mattarella. Perché “l’Enrico stai sereno” peccava forse di mancanza di carisma e d’intraprendenza, ma lo smalto parigino che oggi il segretario mostra, questo suo rivendicare che “tanti anni all’estero mi hanno fatto spostare a sinistra”, rende più complicata la vita del governo. “Ma come?”, sbuffa Lia Quartapelle, responsabile Esteri del Nazareno. “Matteo Salvini conduce quotidianamente, e da settimane, un’opera di logoramento ai danni del governo, e ora noi passiamo per sleali alla prima proposta di parte che avanziamo?”.

 

C’è che forse dalla Lega se lo aspetta, Draghi. Dal Pd no. Maledizione della responsabilità, si dirà. E però c’è dell’altro, a definire questo attrito. Perché la nettezza con cui il premier ha stroncato con parole nette e perentorie (recuperando il più canonico dei refrain di destra contro la sinistra “tassa e spendi”) quel che avrebbe potuto anche stoppare con più diplomatica oratoria, denuncia la mancanza di un’intesa – quella tra Letta e Draghi – guastatasi non poco nelle ultime settimane. E la telefonata chiarificatrice tra il segretario del Pd e il presidente del Consiglio è servita semmai a certificare la necessità di ricucire lo sbrego. “Questioni di metodo”: sono quelle sollevate dal premier coi suoi collaboratori. Come a dire, insomma, che non è innalzando bandiere che si affrontano i problemi complessi. Sulla riforma del fisco, appunto, il Pnrr ha delegato le commissioni Finanze di Camera e Senato. Anche se, a ben vedere, anche lì i lavori sull’indagine per la revisione dell’Irpef procedono su un sentiero accidentato assai, col renziano Luigi Marattin che cerca in ogni modo di arrivare a una proposta unitaria, finendo  con l’attirarsi le critiche di M5s e Lega.

 

“Il punto è che la politica, come per un principio di capillarità, riemerge sempre e si riprende i suoi spazi”, spiega il deputato Enrico Borghi, tra i più fedeli soldati di Letta. Il punto, insomma, sta qui: nel fatto che un governo nato “senza identificarsi con alcuna formula politica”, come disse Mattarella  quel tribolato 2 febbraio, si ritrova a dover prendere decisioni che politiche lo sono eccome. E la riforma del fisco non è che una di queste. Perché poi c’è il dossier delle nomine, su cui i partiti sono in attesa da giorni di ricevere un segnale da Palazzo Chigi.

 

E c’è la Rai: su cui si attende di capire che orientamento abbia il premier, perché lo schema per cui lui sceglie l’amministratore delegato e il presidente, lasciando i partiti a spartirsi le spoglie del cda, non persuade davvero nessuno. Anche perché, appunto, la politica esige i suoi rituali: e quando vengono mortificati, magari a buon merito, producono fibrillazioni. E così, in mezzo al guado, Letta si ritrova anche a dover gestire le bizze dei suoi senatori, i quali gli dicono che, sulle scelte di competenza parlamentari come i membri del direttivo di Viale Mazzini, devono essere i gruppi a votare in autonomia. “Già Maurizio Martina, all’epoca, provò a bocciare David Ermini al Csm”, ha ricordato Andrea Marcucci ai suoi colleghi. “Io mi impuntai, dissi che ero pronto allo strappo: un attimo prima del voto, il segretario mi chiamò e disse che sì, avevamo il via libera a votare Ermini”. Messaggi in bottiglia.

 

E poi, ovviamente, c’è il Quirinale. E c’è la convinzione, da parte del Pd, che l’essere diventato, magari malgré soi, il candidato al Colle del centrodestra, sposta inevitabilmente degli equilibri dentro la maggioranza. E non sarà un caso che lo stesso Draghi si sia voluto sottrarre a questa danza macabra in cui Salvini ha cercato in ogni modo di trascinarlo. 

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.