(Lapresse)

Il primato dell'antipolitica

Francesco Cundari

Per espressioni e obiettivi è una tendenza che finisce sempre per favorire la destra, ma nasce spesso a sinistra

 

La legislatura cominciata con il “primo governo interamente populista dell’Europa occidentale” (definizione del Washington post), con l’assalto dei vincitori delle elezioni al capo dello stato e la proposta di metterlo in stato d’accusa agitata nelle piazze, in nome della lotta contro l’euro e le tecnocrazie globaliste, si avvia a concludersi con un governo guidato dall’ex presidente della Bce, Mario Draghi, sostenuto da una maggioranza di unità nazionale concordemente impegnata sul piano di investimenti e riforme concordato con Bruxelles. E il massimo tentativo di destabilizzazione, da parte di chi nel 2018 minacciava di portarci fuori dall’euro e aveva fatto del ministero dell’Interno la base di un’attività di propaganda aggressiva e xenofoba, consisterebbe nella proposta di eleggere l’attuale presidente del Consiglio direttamente al Quirinale.

 

A guardare la sequenza degli eventi da questa altezza, si sarebbe quasi tentati di tirare un sospiro di sollievo. Se poi scendessimo appena un po’ di quota, per andare a vedere che cosa sia capitato nel frattempo al partito più votato alle elezioni del 2018 – sembra incredibile, ma era appena tre anni fa – più che tirare un sospiro di sollievo, si rischierebbe di soffocare dalle risate.
Lo spettacolo dei vertici grillini giunti ormai alle carte bollate con Davide Casaleggio e l’Associazione Rousseau, nella contesa su titolarità, trasparenza e correttezza della gestione dei dati degli iscritti, è la degna conclusione del loro ambizioso progetto di superamento della democrazia rappresentativa. Facendo le debite proporzioni, è un po’ come se, a tre anni dalle elezioni del ’48, Palmiro Togliatti avesse denunciato Stalin per violazione del finanziamento pubblico ai partiti e attentato alla Costituzione.

 

Di certo, come scrive Luciano Capone, il Movimento 5 stelle si trova ora in una situazione unica al mondo. Quella di “un partito che non è in grado di eleggere i propri vertici perché non sa chi sono i propri iscritti”. Partito che alle stesse persone e agli stessi strumenti da cui oggi non riesce a liberarsi, aggiungo io, voleva affidare le chiavi della nostra democrazia.  
Ripensando ai tanti autorevoli politici e intellettuali che in questi anni sono stati capaci di prendere sul serio persino la pericolosa pagliacciata del “superamento della democrazia rappresentativa”, attraverso la piattaforma del signore che adesso gli stessi grillini vogliono portare in tribunale, verrebbe naturale sperare che la lezione, almeno, sia servita a qualcosa. Ma temo che sarebbe un errore.
E non solo perché il Movimento 5 stelle è ancora il primo partito in parlamento, e molti dei politici e degli intellettuali di cui sopra ambiscono a quei voti per salire al Quirinale. Quanto perché in Italia il populismo antipolitico è maggioritario da decenni, da molto prima dell’arrivo dei Cinque stelle, e non scomparirà con loro.

Negli ultimi quarant’anni, quasi tutti i leader politici hanno tentato quella strada, almeno per una fase della loro carriera (di norma, la fase ascendente). Anche i più insospettabili. Anche chi magari in un’altra fase (di norma, quella discendente) si è rivelato inflessibile custode delle istituzioni, della divisione dei poteri e delle garanzie costituzionali.
Molto prima dei Cinque stelle, molto prima delle stesse campagne contro “la casta” condotte dal Corriere della sera, e tutti gli altri giornali al seguito, c’era già un intero repertorio di modi di dire e di pensare, espressioni, slogan, tutto un lessico comune di cui prima o poi bisognerà tracciare la genealogia. Dal democristiano di sinistra Beniamino Andreatta, che se la prendeva con “l’anonima partiti”, alle invettive di Marco Pannella contro la “partitocrazia”. Da Bettino Craxi, e dai tanti socialisti che non esitavano a civettare con l’estremismo degli anni Settanta contro il  “consociativismo Dc-Pci”, fino a Matteo Renzi, con la “rottamazione” e il “taglio delle poltrone”. 

 

Un linguaggio comune che era già da sempre il vocabolario del giornalismo italiano, a cominciare dagli editoriali in cui Eugenio Scalfari contrapponeva ai politici di professione, ai grigi burocrati degli odiosi apparati, il mito di una politica e di un governo espressione diretta della “società civile”. E pazienza se allora, senza dubbio, Scalfari doveva pensare a illuminati giuristi come Gustavo Zagrebelsky, non certo a luminosi giocatori di freccette come Alessandro Di Battista. La strada era tracciata, e lì ci avrebbe portato.
Questo linguaggio comune si sarebbe in vario modo mescolato e sovrapposto, negli anni della crisi più intensa del vecchio sistema politico, nei primi anni Novanta, alle campagne giustizialiste contro i politici corrotti, alle polemiche liberiste contro la “spesa assistenziale e clientelare”, a varie idee di riforma del sistema elettorale e istituzionale contro la “palude proporzionale” e lo “strapotere delle segreterie di partito” nella formazione dei governi, e contro il “centralismo romano”, in chiave federalista, persino da parte di un ricorrente “partito dei sindaci” (anche questo abbiamo dovuto vedere).

I risultati economici, sociali e civili del nuovo sistema sorto sulle macerie della deprecata Prima Repubblica sono ben riassunti nelle pagine che Draghi ha premesso al Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Per fare un esempio: “Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e del 43,6 per cento”. 
Per fare un secondo esempio: “Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per cento al 7,7 per cento della popolazione – prima di aumentare ulteriormente nel 2020 fino al 9,4 per cento”.
Per farne un terzo: “L’Italia è il paese dell’Ue con il più alto tasso di ragazzi tra i 15 e i 29 anni non impegnati nello studio, nel lavoro o nella formazione (Neet). Il tasso di partecipazione delle donne al lavoro è solo il 53,8 per cento, molto al di sotto del 67,3 per cento della media europea”.

 

In poche parole, il paese del miracolo economico, passato in un balzo dalle macerie materiali e morali del fascismo, dell’analfabetismo di massa, dell’arretratezza industriale, culturale e sociale, all’essere uno dei paesi in cui si vive meglio e più a lungo del mondo, da un certo punto in poi, ha cominciato ad andare indietro. Tutto qui. Ha imboccato contromano la strada del progresso. Probabilmente perché, invece di correggere quel che c’era da correggere in un sistema politico evidentemente in crisi, ha pensato di poterne semplicemente fare a meno. Invece di cambiare i timonieri, ha buttato il timone. E non lo ha fatto tre anni fa, alle elezioni del 2018, ma trenta. Il Movimento 5 stelle e i mille altri leader populisti di oggi non sono gli artefici di questa situazione, ne sono il prodotto. Sono la società civile che ci meritiamo. 
Certo, quella che trent’anni fa ha toccato il suo apice nella crisi terminale della cosiddetta Prima Repubblica era senza dubbio una tendenza molto più antica. Una tendenza che finisce sempre per favorire la destra, ma nasce spesso a sinistra (il novanta per cento delle parole d’ordine sopra ricordate erano e in buona parte sono ancora oggi parole d’ordine della sinistra; eppure a dominare la politica, allora e per buona parte del successivo quarto di secolo, è stato Silvio Berlusconi).

Viene persino il sospetto, in tempi di studi e rievocazioni intorno al Pci in occasione del suo centenario, che l’intera storia della sinistra italiana possa essere riletta in questa chiave — esito assai paradossale, se ci si pensa un minuto — e cioè proprio come costante affermazione del primato dell’antipolitica. Esito che mi suggerisce in particolare, per contrasto, e dunque indubbiamente contro la volontà dell’autore, il nuovo libro di Giuseppe Vacca, “Il comunismo italiano – Una cultura politica del Novecento” (Carocci).
Una cultura politica, prima che un partito. Concezione che è da molto tempo al centro degli studi di Vacca, convinto com’è che le culture politiche preesistano il partito che di volta in volta le incarna e possano di conseguenza sopravvivergli, anche molto a lungo. Tesi meno intellettualistica di quel che può sembrare, testimoniata ad esempio dal modo in cui tante persone hanno continuato a parlare di comunisti e democristiani, fascisti e socialisti, pure diversi decenni dopo la fine dei partiti che così si chiamavano, magari per riferirsi a leader che al tempo di quelle definizioni non erano neanche nati (politicamente, e in qualche caso persino fisicamente).

 

Il libro, che è anche un’autobiografia intellettuale, raccogliendo e sistematizzando gli studi di una vita su alcune figure centrali del comunismo italiano (Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti prima di tutti), potrebbe essere letto come il più forte tentativo di riassumere la storia del Pci nel difficile sforzo di affermare il primato della politica, e di una certa idea della politica, al proprio interno e nel paese. Ma forse la figura più significativa da questo punto di vista è quella di Giorgio Amendola, cui è dedicato un lungo capitolo. L’uomo di punta del rinnovamento togliattiano e della via italiana al socialismo negli anni in cui dentro il Pci si giocava la sfida decisiva tra lotta democratico-parlamentare e guerra civile, in contrasto con Pietro Secchia, all’indomani della Liberazione. E anche il durissimo fustigatore degli intellettuali che negli anni settanta si sarebbero lasciati sedurre (o intimidire) dalle sirene dell’estremismo, da parole d’ordine violente e insensate, dal pericoloso qualunquismo di false equidistanze del genere “né con lo Stato né con le Br”. Severità che forse proprio lui, che il fascismo lo aveva combattuto davvero, poteva permettersi più di tanti altri.

 

Se però è lecito non solo tentare di leggere il presente alla luce del passato, ma provare ogni tanto a fare anche il contrario, ebbene, con il senno del poi, è lecito domandarsi se un simile sforzo – quello di figure come Togliatti e Amendola, sul campo, ma anche di Vacca, nell’interpretazione – non sia un’immensa fatica di Sisifo, che in qualche modo torna sempre al punto di partenza, e di recente forse anche un po’ più indietro (vado alla svelta per ragioni di spazio, mi perdonerete se non mi soffermo sulla prevedibile obiezione di chi sarebbe capace di sostenere che oggi, al contrario, l’alleanza strutturale con Luigi Di Maio sia un grande risultato sulla strada della riaffermazione in Italia del primato della politica).

Forse la ragione per cui questo aspetto della “cultura politica” postcomunista si è completamente dissolto, a pensarci bene, dipende dall’indebolimento del legame tra politica italiana e politica internazionale dopo l’89. Questo almeno è quello che mi è venuto da pensare leggendo “I comunisti italiani e gli altri – visioni e legami internazionali nel mondo del Novecento” (Einaudi), libro in cui Silvio Pons ripercorre – con fredda (e rara) obiettività – l’intera storia del Pci, e dunque anche dell’Italia, dal punto di vista del suo ruolo e dei suoi rapporti internazionali. A suggerirlo sono diversi passaggi della controversa e contraddittoria vicenda analizzata nel libro di Pons, che ha del resto un respiro molto più ampio, mosso com’è dalla convinzione che “la fine dell’internazionalismo comunista non sia stata un episodio a sé stante”, ma il preludio “alla crisi profonda di tutti gli internazionalismi emersa nel nuovo secolo”.

 

A me però è un’idea che è venuta in particolare leggendo di quando Togliatti, al tempo dello scontro sul Piano Marshall, subito dopo l’estromissione di comunisti e socialisti dal governo De Gasperi (e dopo essersi impegnato in Direzione nel sostenere che il Pci doveva continuare a muoversi come un “partito di governo”, per “impedire che il partito e le masse che ci seguono scivolino su posizioni che conducono alla lotta e all’insurrezione armata”), spiegava all’emissario sovietico Dmitrij Sevljagin come “la maggior parte delle questioni di politica interna del nostro paese siano questioni di carattere internazionale”. Oggi, semmai, sono questioni di carattere comunale, o addirittura condominiale, come la surreale vicenda casalaggese che sta tenendo col fiato sospeso – fa ridere, ma è la pura verità – l’intero paese, a cominciare dal centrosinistra.

Forse, quando la delegittimazione reciproca tra i partiti si svolgeva lungo il crinale di uno scontro internazionale, perché democristiani e comunisti si accusavano di essere servi di Mosca o servi degli americani – cioè di essere dei potenziali golpisti, non dei rubagalline – la questione della difesa delle istituzioni democratiche, e dunque anche della loro legittimazione, assumeva per entrambe le parti un certo valore, anche dal punto di vista pratico. E non ci sputavano sopra tanto facilmente, per ottenere lo 0,1 per cento in più nei sondaggi, che peraltro non esistevano, almeno nella forma attuale. E sicuramente anche questo aiutava.
 

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