Luigi Di Maio e Matteo Salvini, vicepremier del governo gialloverde, insieme nel luglio del 2019 (foto LaPresse)

La fronda dimaiana che guarda alla Lega getta nel caos il Parlamento

Valerio Valentini

La trattativa sulle nomine nelle commissioni si blocca: il M5s è una polveriera pronto a giocare di sponda col Carroccio. "Di Maio ha nostalgia di noi", sorride Giorgetti. La rabbia del Pd

L’ultimo segnale, quello decisivo, è arrivato ieri pomeriggio sul voto per il nuovo consiglio dell’AgCom. Ventidue dissidenti al Senato, quarantadue alla Camera: in tutto sessantaquattro parlamentari del M5s che si sono ammutinati. “Sessantaquattro pedine che Luigi Di Maio ha voluto muovere”, dice un sottosegretario grillino. E del resto, le orme del ministro degli Esteri sul sentiero che aveva portato a quella mezza imboscata erano fin troppo visibili: perché quei sessanta parlamentari, rifiutandosi di sostenere la professoressa di sociologia Elisa Giomi, avevano dato il proprio appoggio al deputato Emilio Carelli, l’ex direttore di SkyTg24 che era il candidato inizialmente prescelto da Di Maio per il vertice dell’AgCom, prima che le cervellotiche consultazioni interne dei gruppi arrivassero a tagliarlo fuori. “Ma Luigi lo fa, più che altro, per lanciare un sasso nello stagno”, dice chi lo conosce bene. “Per vedere l’effetto che fa”.

 

E l’effetto, guarda caso, è quello di innescare le paure dei capigruppo del Pd, impegnati nella trattativa per il rinnovo delle presidenze di commissione: Delrio e Marcucci fiutano puzza di bruciato, e a quel punto tirano il freno a mano. Anche perché nel frattempo anche Matteo Renzi s’è impuntato sulle sue richieste. Vuole a tutti i costi la guida della commissione Lavoro al Senato, che però i grillini non vogliono cedergli. “Prenda la Finanze, se vuole”, gli dicono. Se non fosse che lì il Pd vuole piazzarci Luciano D’Alfonso, che va minacciando fuoco e fiamme in caso di mancata promozione. E allora tutto s’ingarbuglia di nuovo. Un vertice di maggioranza alle sette di sera, martedì, poi ancora alle dieci. Niente da fare. L’indomani ci si rivede a Palazzo Chigi, all’alba, alla presenza del ministro grillino per i Rapporti col Parlamento, Federico D'Incà. E niente lo stesso. Meglio rimandare.

 

Anche perché, nonostante il rumore degli attriti risuoni forte tra i corridoi di Palazzo Madama, a fare paura sono soprattutto i brusii che vengono dal Transatlantico di Montecitorio. Dove, da giorni, nella nebulosa informe di invidie e gelosie che scompostamente alimenta il malessere interno al M5s, va prendendo sostanza una sommossa generale. A sapere che dovrebbero eleggere Luigi Marattin alla presidenza della loro commissione, i grillini della Finanze, che già tre mesi fa s’erano spaccati sulla successione a Carla Ruocco, vanno in subbuglio. E il malessere è così evidente che Nicola Grimaldi lo esterna a mezzo social. Senza pudore. Stesso discorso in commissione Esteri: “Votare per Piero Fassino? Manco morti”. Neppure alla Lavoro l’idea di eleggere Debora Serracchiani esalta i grillini. Figurarsi Maria Elena Boschi alla Giustizia (che pure sembra possibile, a un certo punto). Per non dire del caos che c’è in commissione Cultura, dove la scorsa settimana, con un blitz, è stato fatto fuori Luigi Gallo, fedelissimo di Roberto Fico, attraverso un complicato sistema di preselezione interna. Stesso iter che ha portato alla scelta di Andrea Giarrizzo come papabile per la Affari produttive, tra lo sconcerto del gruppo del Pd che puntava su Gianluca Benamati.

 

E ovviamente i leghisti, che hanno fiutato l’aria, si sono subito attivati per fomentare i malumori e utilizzarli per allestire delle trappole. E allora ecco l’ipotesi che Raffaele Trano, ex grillino dissidente, venisse riconfermato in Finanze; o un grillino diverso dal prescelto Giarrizzo alle Attività produttive. A un certo punto, alle orecchie di Dario Franceschini è arrivata perfino la preoccupazione più grande, quella sulla Bilancio dove si paventava una sfida tra Fabio Melilli, di AreaDem, e Marattin: “Qua, Dario, rischiamo che i grillini votino con la Lega per riconfermare Claudio Borghi”.

 


E’ lì che è scattato il contrordine, evidentemente. Tutto fermo, tutto rinviato. “Se ne riparla dopo lo scostamento di Bilancio”, dicono nel Pd. “Rimandiamo di quindici giorni”, chiedono i grillini, sperando che tanto basti a risolvere le loro autolesionistiche baruffe. Ma la sensazione, assai condivisa, e che ben altro che un paio di settimane siano sufficienti. Anche perché non tutto il caos nel M5s è spontaneo.

 

Di Maio, che quei mal di pancia irrazionali dei suoi, quei capricci da bimbi dell’asilo li conosce bene, per averli dovuti domare per anni, prima di lasciare formalmente la guida del Movimento, osserva interessato. E quel malumore, alla bisogna, lo manovra, lo incanala nei solchi che più gli sono comodi. “Ha nostalgia del vecchio governo”, dice sornione, ai suoi parlamentari, Giancarlo Giorgetti, che col ministro degli Esteri parla assiduamente, all’inizio attraverso Raffaele Volpi, presidente del Copasir, nelle vesti di intermediario, ora per via diretta. E con questo intende dire, Giorgetti, che Di Maio bisogna tenerselo buono, e magari promettergli quel che lui spera di ottenere a settembre: l’apoteosi a Palazzo Chigi. Con un governo giallorosso, se possibile, o con un governo di tutti, se serve. Ma Di Maio anche con Renzi, si sente spesso: è un po’ “il vertice fisso di quel triangolo mobile che vorrebbe incastrare Giuseppe Conte”, per dirla con le parole di un parlamentare di Iv.

 

Anche per questo, nel Pd, si chiedono se non convenga, a questo punto, attendere l’autunno per il rinnovo delle presidenze di commissioni: dopo le regionali, coi nuovi rapporti di forza che potrebbero determinarsi, e con un Di Maio costretto a decidere da che parte stare, e in che ruolo, trovare un accordo nel gran risiko parlamentare potrebbe essere meno difficile.

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