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Il principio di precauzione è debole nella società globale del rischio

Giovanni Pitruzzella

Come abbiamo affrontato il Covid. Occorrono scelte in un quadro di incertezza, e non possono che spettare alla politica

L’epidemia da Covid-19 ci ha posto di fronte una realtà che, finora, avevamo fatto in modo di non vedere: viviamo in quella che Ulrich Beck chiama la “società globale del rischio”. Una società in cui, anche per effetto delle conseguenze indesiderate dell’azione umana, si moltiplicano i rischi, rispetto ai quali le nostre conoscenze sono insufficienti. L’emergenza sanitaria è passata, ma il virus potrebbe tornare a colpire, e comunque vivremo altri rischi e nuove crisi: una forte crisi economica è seguita alla crisi sanitaria e poi abbiamo solo messo tra parentesi i rischi legati alle migrazioni, al riscaldamento globale, al terrorismo islamico e tanti altri.

 

Fino a ieri dominava l’idea di un’espansione illimitata dei diritti individuali ben espressa da formule come “l’età dei diritti” (N. Bobbio) e “il diritto di avere diritti” (S. Rodotà). Ma quando, com’è avvenuto con l’epidemia, è minacciata la vita, cioè la premessa di ogni libertà, tutto il bagaglio concettuale elaborato dal costituzionalismo sembra di colpo inservibile. Se la “società globale del rischio” è il mondo in cui viviamo dobbiamo rassegnarci ad assistere a un processo di strutturale restrizione delle nostre libertà oppure possiamo cercare di adeguare ai caratteri dei tempi presenti il sistema giuridico e istituzionale in modo da salvaguardare, per quanto possibile, i valori della nostra civiltà?

 

La scena è stata dominata, e lo sarà a lungo, dal principio di precauzione. Si tratta di un principio generale del diritto dell’Unione europea, che è poi trasmigrato negli ordinamenti nazionali ed è presente in una corposa giurisprudenza. Certamente esso offre riparo a fondamentali valori, come la tutela della salute e dell’ambiente, ma questo non può impedirci dal vederne le ambiguità. Il costituzionalista americano Carl Sunstein ha messo in evidenza che il principio di precauzione è paralizzante perché imponendo il divieto di una determinata attività porta con sé altri rischi che derivano proprio dal mancato svolgimento di quella attività, per impedire i quali bisognerebbe invece consentirla. Per esempio, molti hanno paura del nucleare, ritenendo che le centrali atomiche determinano seri rischi per la salute e la sicurezza, a causa della possibilità di incidenti nucleari. Ma una nazione per non ricorrere al nucleare potrebbe essere indotta a utilizzare i combustibili fossili per produrre energie, aggravando altri tipi di rischi, in particolare quelli associati al riscaldamento globale.

 

Un altro esempio può riguardare la durata e il tipo di sperimentazione richiesta prima che sia autorizzato l’immissione in commercio di nuovi farmaci. Per evitare il rischio di danni derivanti da farmaci non sufficientemente testati, si impedirà a una parte della collettività di ottenere i benefici potenziali di questi nuovi farmaci aggravando i rischi per la salute cui è soggetta questa parte della popolazione. Ancora, molti ritengono che impedire la modificazione genetica di prodotti diretti all’uso alimentare possa ridurre il rischio di malattie e decessi che l’uso di questi alimenti potrebbe provocare. Al contempo, però, omettere la produzione più economica e in maggiore quantità di prodotti di tal tipo potrebbe privare una parte importante della popolazione di alcuni paesi poveri e in via di sviluppo di avere a disposizione una quantità sufficiente di cibo per non morire di fame.

 

Questi esempi dimostrano come il principio di precauzione ci salva da certi rischi ma determina rischi sostitutivi nella forma di pericoli che si materializzano o aumentano in conseguenza della scelta regolativa. Anche col Covid-19 avviene lo stesso fenomeno. Per contrastare la sua diffusione è stato necessario sacrificare certe libertà, come quella di circolazione, e concentrare il sistema sanitario sulla risposta al virus, ma in questo modo si possono alimentare altri rischi, come il sacrificio del diritto alla salute di quei malati affetti da altre patologie che non potevano curarsi negli ospedali occupati esclusivamente nel contrasto all’epidemia, o il rischio che una crisi economica duratura spazzi via un numero enorme di posti di lavoro.

 

Il punto è che siamo esposti a molteplici fonti di rischio e il principio di precauzione non ci può salvare da questa che è la realtà in cui viviamo. Possiamo soltanto scegliere tra più rischi decidendo di limitarne al massimo uno a costo di espandere i rischi che sono aggravati dal divieto. Possiamo pure cercare un bilanciamento dei rischi, dando la prevalenza all’esigenza di contenere quello che viene percepito come il rischio più grave senza arrivare all’espansione eccessiva di altri rischi. In questo processo gioca un ruolo importante il sapere tecnico-scientifico, ma alla fine occorre fare una scelta tra rischi, in un quadro di elevata incertezza. Questa scelta non può che spettare alla politica che deve definire una gerarchia o un contemperamento tra i valori diversi che sono minacciati dalla concretizzazione dei differenti rischi. Non c’è nulla di deterministico, né un sapere collaudato che va applicato secondo le regole della normale diligenza. Questo rende, tranne che in casi estremi, assai discutibili i tentativi di un sindacato giurisdizionale sulla gestione dell’epidemia, ma al tempo stesso espone noi tutti al rischio dell’arbitrio. Quello che probabilmente è cruciale per la tutela delle nostre libertà è la trasparenza del processo decisionale e la motivazione della scelta.

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