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Cosa sacrificare pur di salvare l'umanità? I racconti profetici di Lino Aldani

Raffaele Alberto Ventura

Sopravvivenza e pandemia nella fantascienza di 60 anni fa

Nell’anno 1964, sul quarto numero della rivista antologica Futuro veniva pubblicato un racconto di fantascienza intitolato “Trentasette centigradi”. Vi si immaginava una civiltà futura nella quale i medici avevano preso il potere imponendo a tutti di essere sani. In ogni momento della loro esistenza i cittadini erano controllati da agenti della Convenzione medica generale che si assicuravano che fossero vestiti adeguatamente, che avessero preso le loro medicine per prevenire eventuali malattie e che non prendessero rischi. L’intera vita in questa “esculapiocrazia” gira attorno alla salute: non soltanto si lavora per pagare la Convenzione medica, ma inoltre si vive in una condizione di angoscia permanente sperando di non ammalarsi. L’esistenza umana è interamente sussunta entro il regno della precauzione. Due anni dopo, il racconto viene citato in un articolo della rivista francese Esprit dedicato alla fantascienza, che ne coglie l’evidente messaggio di satira sociale e conclude: “La paura della morte ha condotto una società a instaurare uno stile di vita che non merita più di essere vissuto”. Caricatura? Eppure ci pare di scorgere alcune similitudini con il presente.

  

L’autore di questo racconto non è uno sconosciuto ma è anzi considerato come uno dei più importanti scrittori italiani di fantascienza, e come tale ovviamente dimenticato, ovvero Lino Aldani. La sua opera è innervata di considerazioni politiche e sociologiche che risuonano con le ricerche degli intellettuali dell’epoca. In uno dei suoi primi racconti, eloquentemente intitolato “Tecnocrazia integrale” e pubblicato nel 1961 sulla rivista popolare Oltre il cielo, Aldani racconta l’avventura fantozziana di un funzionario che si prepara per un concorso difficilissimo, con domande sulle geometrie iperboliche e i campi elettromagnetici, per ottenere (come si scopre alla fine) il posto di… spazzino municipale. Questo non prima di essersi chiesto, in uno di quegli eccessi di paranoia che caratterizzano i personaggi aldaniani come quelli dickiani, se quella prova “inumana” non era soltanto una vendetta della grande macchina contro gli esseri umani. Caricatura? Eppure, anche in questo caso, non siamo distanti dal modo in cui la nostra società meritocratica opera la selezione in base alla competenza, ossessionata dall’idea di trovare i “migliori”. Con grande costo, grande sofferenza e risultati non sempre all’altezza.

   

L’intera opera di Aldani sembra gravitare attorno ai temi della burocratizzazione del mondo che erano diventati argomento di dibattito a partire dagli anni Cinquanta e non più soltanto tra trotskisti e anarchici. Nel 1979 lo scrittore pubblica il romanzo Eclissi 2000, cronaca di una spedizione centenaria verso Proxima Centauri per trovare un nuovo mondo, sorta di “Snowpiercer” ante litteram. Un breve paragrafo posto all’inizio del libro annuncia in poche parole sibilline il senso della sua “parabola amara”, che “solo chi ha militato in un partito politico rivoluzionario e ha ricoperto incarichi di una certa importanza per le sue strutture potrebbe afferrare in tutte le sue significanze”. Senza rivelare troppo del finale del romanzo, si tratta di denunciare le “fondamenta menzognere” del potere, perché inevitabilmente il rivoluzionario sa bene che la rivoluzione non può apportare subito i miglioramenti promessi. E tuttavia promette subito. Perché, se così non facesse, il popolo non lo ascolterebbe.

  

Questo debito sul quale è fondato il consenso deve prima o poi essere pagato. Ed è proprio in quel momento, quando si confrontano le promesse con le realizzazioni, che il sistema di legittimazione rischia di entrare in crisi. Ma questa crisi non può esplodere fintanto che sussiste un rapporto di dipendenza troppo forte nei confronti della classe di tecnici che ha il monopolio della macchina, in questo caso un’astronave sparata ad anni luce lontano dalla Terra.

  

L’opera di Lino Aldani è un’inesauribile miniera di moniti e profezie. Non dovrebbe stupirci, a questo punto, trovare in un suo racconto del 1960 l’annuncio di una terribile pandemia che avrebbe colpito il mondo nel 2025. Malgrado quei cinque anni di differenza che guastano la coincidenza, “La luna dalle venti braccia” merita di essere riletto oggi: è la storia di una spedizione intersiderale alla ricerca dell’unico rimedio per la malattia, un vegetale di nome xemedrina che cresce soltanto sulla sesta luna di Saturno. La premessa appare assai simile a quella della spedizione del Bounty – anche in quel caso si tratta di riportare a casa un vegetale, quella pianta dell’albero del pane che avrebbe potuto risolvere il problema della penuria alimentare in Inghilterra – ma non si assisterà ad alcun ammutinamento, malgrado ci si arrivi piuttosto vicino. Atterrato sull’astro e procuratosi il rimedio, il comandante Langersson scopre che a causa di un guasto per ripartire è necessario alleggerire la nave. Dopo avere buttato via tutto il superfluo e poi anche il necessario, restano ancora 64 chili di troppo, e sacrificare un uomo è fuori discussione. L’unica soluzione trovata dal comandante per salvare la missione (e quindi l’umanità) consiste nel fare amputare il braccio sinistro di tutti gli uomini dell’equipaggio dal medico di bordo. Da principio il medico accusa Langersson di essere pazzo, finché non accetta che non esiste altra soluzione a quel dilemma morale, perché in gioco è la sopravvivenza della razza umana.

 

E di simili dilemmi morali – a cosa di essenziale rinunciare pur di salvarci dalla malattia, quale parte del corpo sociale amputare? – è fatto anche il nostro presente, nell’anno 2020.

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