In Parlamento l'unico virus ad alto spettro infettivo è il decreto intercettazioni

Salvatore Merlo

Il Pd chiede un controllo sanitario all’ingresso. Ma nemmeno il Covid19 ferma i riti di Palazzo. Nomine, potere e capannelli

Roma. Subito all’ingresso della Camera dei deputati. Un cartello premonitore. “Tavola rotonda: #Coronavirus, Dubbi, Certezze e Fake News”. Allora la domanda è lecita. “Ma un tampone non ci sarebbe?”, si sente chiedere il medico di Montecitorio. Gli onorevoli del Pd vogliono sia installato un controllo sanitario all’ingresso. Saranno installati degli scanner termici. “Soprattutto servirebbe per i colleghi del nord”, specifica Patrizia Prestipino, deputata del Pd e professoressa (romana). Il barese Marcello Gemmato, invece, deputato di FdI, che di mestiere è farmacista, spiega con competenza tecnica che tra l’Aula e il Transatlantico “non c’è quello che in gergo scientifico si chiama ‘flusso lamellare’, cioè il passaggio d’aria che genera sterilità. Qua basta un ammalato e siamo tutti fregati”. Al che un collega spiritoso: “Insomma il coronavirus sarebbe peggio di Tangentopoli”.

    

C’è chi si preoccupa, sì, c’è persino una deputata che gira in mascherina (a quanto pare però solo per farsi intervistare), ma soprattutto c’è chi ironizza – ma non hai paura del coronavirus? “Io? Io sono calabrese”, ride il grillino Riccardo Tucci, mentre il forzista Enrico Costa, battagliero e avversario del ministro Bonafede, si lamenta per le assenze dei suoi compagni di partito nel giorno in cui si discute il dl intercettazioni. “Quaranta presenti su novanta. Noi il coronavirus ce l’abbiamo tutti i giorni”. Eppure la malattia che si diffonde nell’aria e attraverso la voce, il virus che si annida nelle parole, dovrebbe essere la peggiore insidia per un luogo come questo, che prende il suo nome dall’atto stesso del parlare. Ma il Parlamento resiste. Almeno alla paura.

 

Dotato di un’immunità ben più solida di quella stabilita dall’articolo 68 della Costituzione. Così, se nei corridoi i commessi si dolgono soprattutto delle partite di calcio che saranno a porte chiuse, ecco che il virus che poteva determinare l’implosione dell’identità e dei riti di Montecitorio, del sussurro, del conciliabolo e del capannello, viene annientato. Debellato. Ma non dall’Amuchina. Come disse una volta Antonio Gava al grande cronista Guido Quaranta: “Il colera passa, i Gava restano”.

  

Aforisma cinico sull’eternità del potere, quantomai attuale. Ne sa qualcosa il sottosegretario grillino Stefano Buffagni che si rinchiude in un angolo mal areato con Guido Crosetto e Francesco Lollobrigida, gli emissari di FdI incaricati di discutere delle nomine pubbliche con il governo. Ogni parola, da quella distanza, è uno scambio di saliva. Altro che i due metri prescritti dal ministero della Salute nelle zone di contagio. Ma le nomine sono meglio della mascherina antivirale. Eni, Enel, Finmeccanica, Rai… Così, mentre in Aula il governo chiede la fiducia sul dl intercettazioni voluto da Bonafede, mentre le opposizioni denunciano la norma liberticida e incostituzionale, ecco forse individuato l’unico virus che davvero circola da queste parti oltre al potere (ma è un virus o un toccasana?): un bel focolaio di trojan telefonici, cimici ambientali e libertà di pubblicare tutto a indagini aperte. A ciascuno il suo Covid19.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.