Una bandiera dell'Ue sui banchi del Senato (foto LaPresse)

Salvare l'Europa dal nanismo industriale

Claudio Cerasa

Considerare la globalizzazione come un’opportunità da cogliere e non un nemico da cui proteggersi. La fusione tra Fca e Psa e il disastro di Bari sono due facce della stessa medaglia. Perché solo ciò che può competere in Europa può competere anche in Italia

Negli ultimi tre giorni, le cronache economiche italiane si sono concentrate su due storie importanti apparentemente differenti l’una dall’altra. La prima è una storia di insuccesso ed è quella che riguarda la fase di estrema turbolenza vissuta dalla Banca popolare di Bari, 430 milioni di rosso alla fine del 2018, per la quale il governo ha appena stanziato 900 milioni di soldi pubblici per evitare il fallimento. La seconda è una storia di successo ed è quella che riguarda la fusione tra Fca e Psa che da ieri ha dato vita in modo ufficiale al quarto costruttore mondiale di automobili con una capacità commerciale di 8,7 milioni di veicoli all’anno, un valore totale dell’azienda pari a 46 miliardi di euro e una quota di ricavi che arriva a circa 170 miliardi di euro all’anno.

 

La prima storia, quella di Bari, è una storia di insuccesso per ragioni legate anche all’incapacità di considerare la globalizzazione come un’opportunità da cogliere e non come un nemico da cui proteggersi. La crisi di BpB è legata a fattori diversi ma un fattore non secondario è certamente quello che riguarda la volontà della banca di opporsi con tutte le sue forze a un processo di crescita che nel 2015 – quando decise di opporsi alla riforma varata del governo Renzi che obbligava le popolari a diventare società per azioni – avrebbe permesso all’istituto pugliese di avere una governance meno opaca e più contendibile rimuovendo alcune cause strutturali della sua malagestione. In un paese come l’Italia, dove metà dell’export è prodotto da piccole e medie imprese che hanno tra i 10 e i 250 dipendenti e che da sole esportano più dell’intera industria spagnola, dire che essere piccoli equivale a essere automaticamente brutti è un eccesso di demagogia. Ma non c’è dubbio che quando un’azienda non è efficiente e ha una governance obsoleta, per salvare se stessa può scegliere una strada diversa rispetto a quella di arrivare a un passo dal fallimento: ragionare in grande, migliorare la sua redditività e aprirsi al mercato (nel 2015, dopo la riforma sulle popolari, la governance della Banca popolare di Bari fece ricorso con successo al Consiglio di stato per fermare la sua trasformazione in spa, salvo poi ricevere nel 2018 una bocciatura del ricorso da parte della Consulta).

 

Dall’altra parte, se vogliamo, la storia della fusione tra Fca e Psa, vecchio sogno di Marchionne realizzato ora da quello che in molti in Fca e non solo vedono come il suo vero erede, il portoghese Carlos Tavares, ci dice che le aziende destinate ad avere un futuro sono quelle capaci di trasformare le chance offerte dal mercato non in un vincolo soffocante ma in una grande occasione di crescita. In economia il vero bipolarismo del futuro è destinato a essere una competizione tra i campioni europei che attraverso la crescita dimensionale tentano di conquistare fette di mercato crescenti e le piccole imprese assistite che combattendo la globalizzazione finiscono per diventare una zavorra anche per lo stesso territorio che in teoria dovrebbero salvaguardare. Di fronte a questo bipolarismo, naturalmente, e di fronte alla sfida se agevolare o no la battaglia culturale contro il nanismo industriale, la politica nel migliore dei casi lascia fare al mercato, cosa che non capita spesso, mentre nel peggiore dei casi si preoccupa di come intervenire in settori sui quali a volte sarebbe molto meglio non intervenire. Il punto in fondo è tutto qui ed è un punto che riguarda più l’Europa che i singoli paesi membri: di fronte alla sfida dell’innovazione e della competitività l’Europa avrà o no il coraggio di dotarsi di politiche capaci di supportare la crescita delle imprese?

 

Lo stop della Commissione europea alla fusione franco-tedesca di pochi mesi fa (Siemens-Alstom), gli ostacoli alla fusione tra Fincantieri e i Cantieri francesi, il consenso in Italia alla fusione tra Wind e 3 subordinato all’ingresso di un quarto operatore (in Germania, che ha più abitanti dell’Italia, i grandi operatori sono tre) sono tutti segnali che indicano una certa difficoltà e una qualche contraddizione da parte dell’Europa nell’individuare la giusta misura per combattere i monopoli senza scoraggiare la formazione di campioni europei.

 

Il Jacques Delors Institute, come hanno ricordato Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle nello splendido monografico pubblicato lunedì dal Foglio, qualche settimana fa ha diffuso un paper intitolato “Beyond Industrial Policy. Why Europe Needs a New Growth Strategy” e rispetto alla traiettoria futura dell’Europa ha individuato alcune priorità condivisibili per evitare di trasformare la lotta contro i monopoli in una lotta contro i campioni europei. Primo: completare il mercato interno. Secondo: rimuovere gli ostacoli alla crescita dimensionale delle piccole e medie imprese. Terzo: continuare il processo di liberalizzazione e omogeneizzazione degli standard nei settori industrialmente più rilevanti. Quarto: ampliare le fonti di finanziamento per le imprese per dare un contributo a coloro che hanno difficoltà di accesso al canale bancario. Quinto: erogare finanziamenti europei alla ricerca e rimuovere gli ostacoli all’innovazione e alla concorrenza nel nuovo mondo digitale. La storia di Fca e di Psa messa vicina a quella della Popolare di Bari ci offre dunque molti spunti di riflessione ma ci indica prima di tutto quale sarà la sfida dell’Unione europea nei prossimi anni: essere in grado di porsi come un alleato delle imprese intenzionate a combattere il nanismo industriale provando a creare un modello capace di sostenere lo sforzo di crescita non solo dei campioni delle Europa ma anche delle multinazionali tascabili. Il senatore Gianni Agnelli, un tempo, diceva “ciò che va bene per Torino va bene per l’Italia”. Oggi sarebbe il momento di ricordare che solo ciò che può competere in Europa può competere anche in Italia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.