Il soprano Jessye Norman (foto LaPresse)

Jessye Norman, il soprano assoluto padrona di ogni sfumatura della voce

Mario Leone

Aveva 74 anni. Cantò anche per Reagan, Clinton e la regina Elisabetta

Roma. Di sorpresa, la notizia ha fatto il giro del mondo con la stessa velocità con cui la sua voce era capace di proiettarsi “in avanti” tra le volte dei teatri. Quella tecnica che i cantanti studiano una vita e pochi riescono a realizzare senza risultare goffi. Non vorremmo scrivere quel nome, Jessye Norman. Soprano “drammatico”, come si è soliti incasellare le vocalità potenti, calde, capaci di estensioni mirabolanti. Ma la Norman è qualcosa di più. Un caso unico nella storia del canto. I giornali e gli esperti del settore provano a fare paragoni. Citano la Callas. Lasciate stare. E’ un fenomeno differente. Qualità della voce, classe interpretativa e ricchezza di sfumature inserite in un repertorio vastissimo. Imparagonabile. Tutti citano il suo Wagner (prodigioso), compositore con il quale ha debuttato nei panni di Elisabetta nel Tannhäuser a Berlino. A ventiquattro anni. Di lì un fiume in piena. In Italia appare a Firenze nella Deborah di Händel (1970), in una versione da concerto dell’Idomeneo  di Mozart a Roma, ancora a Firenze al Maggio musicale del 1971, quale Selika nell’Africana di Meyerbeer, e, nel 1972, a Milano, alla Scala, in Aida.

 

Scorrendo la sua sterminata discografia e ascoltando le sue esecuzioni viene da chiedersi: “E Berlioz? E Poulenc? Mahler, Purcell, Strauss, Stravinsky, Bartòk?”. Ogni repertorio sembra scritto appositamente per lei, capace di penetrare qualsiasi personaggio. Una voce naturale che cela una tecnica impeccabile. Perfetto dominio dei fiati, fraseggio di estrema espressività, dizione sempre luminosa e chiara: doti che si accompagnano a un’estensione tale da consentirle di affrontare, con risultati sorprendenti, anche una pagina per mezzosoprano quale l’aria di Dalila dal  Sansone e Dalila  di Saint-Saëns.

 

Negli anni 90, in un momento di grande vulnerabilità, il critico Peter G. Davis, nel suo libro “The American Opera Singer”, definì la sua tecnica inaffidabile. La sua Kundry (dal Parsifal) del 1991 al Met, scrisse, fu rovinata da “un atteggiamento prepotente” e “caratterizzato da esagerati manierismi vocali”. Quando non era possibile criticare la voce si passava alla corporatura. Troppo invadente, poco adatta all’interpretazione. “Le persone che mi fanno queste critiche mi danno un’energia unica – ribatte sulle colonne del Los Angels Times – e io sono qui a dimostrare il contrario”. Al New York Times, qualche anno fa, spiegava cosa le succedeva prima di andare in scena: “Devo essere lasciata completamente sola. La solitudine mi permette di concentrarmi e come un momento di preghiera. Prima di interpretare un personaggio lavoro molto sul testo. Le parole devono essere comprese, sentite e comunicate… Se studi attentamente le parole e le fai tue, sei già a metà strada. Il resto è sentimento e totale coinvolgimento. Se un artista è veramente impegnato, il pubblico sarà il primo a coglierlo e risponderà di conseguenza. Non dimentichiamo poi l’amore che è ciò che spinge tutti gli uomini, il vero carburante!”. Ci lascia a 74 anni per “uno choc settico e un’insufficienza multiorgano legati a un danno alla spina dorsale risalente al 2015”. Ricordano una sua apparizione, un aneddoto. Jessey Norman ha raggiunto negli anni una notorietà che l’ha portata a cantare alle cerimonie di insediamento di Ronald Reagan e di Bill Clinton, oltre che per il 60° compleanno della regina Elisabetta. Ha vinto cinque Grammy, tra cui uno alla carriera nel 2006, ricevendo una National Medal of Arts dal presidente Barack Obama, ed è stata insignita della Legion d’Onore francese. “Siamo così fieri dei traguardi musicali di Jessye e dell’ispirazione che è stata per il pubblico di tutto il mondo che continuerà a essere fonte di felicità”, dice il comunicato della famiglia, quella felicità che in questo momento cerchiamo noi tutti che non riusciamo a credere che Jessye ci abbia lasciato.

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