Andrea Orlando, vicesegretario del Partito democratico (foto LaPresse)

"Il Partito socialista europeo non basta più" dice Andrea Orlando

Andrea Orlando

Il vicesegretario del Partito democratico spiega perché è ora di aprire il Pse superandolo con una proposta coraggiosa da rivolgere ai verdi e anche al Ppe

Ripetiamo sempre più spesso e con ragione che è necessario rafforzare la dimensione politica in Europa e che bisogna consolidare il rapporto tra i cittadini e le istituzioni dell’Unione. Dobbiamo però fare i conti con un’evidenza: i partiti politici europei sono assolutamente inadeguati per questo scopo. La recente definizione dei vertici dell’Unione ha messo ancor più in luce quest’aspetto. Il meccanismo degli Spitzenkandidaten, cioè dei candidati indicati dalle aggregazioni europee alla guida della Commissione che doveva fare qualche passo avanti, a questo giro è stato travolto dall’asse franco-tedesco, mostrando ancor più la fragilità delle famiglie politiche europee. Divise al loro interno per obiettivi e per cultura politica, le principali sigle appaiono sempre meno in grado di essere i soggetti della democrazia europea. Il problema si pone in modo acuto anche per il Pse. E’ tempo di ripensare il suo perimetro e la sua organizzazione. Fuori dal partito del socialismo europeo, è sempre più chiaro, ci sono forze che condividono l’idea di Europa sostenuta dalla maggior parte dei socialisti. Un’Europa che rafforzi la sua dimensione sociale, che punti decisamente sulla sostenibilità, che si metta nelle condizioni di guidare il processo di trasformazione dell’economia, che difenda lo stato di diritto e promuova i diritti umani. Su questa piattaforma deve essere coinvolta in primo luogo l’area post socialista sorta nel mondo progressista a causa della crisi delle forze socialdemocratiche tradizionali.

 

La crisi dei partiti socialdemocratici, infatti, dovuta anche all’inadeguata risposta europea, alla crisi finanziaria globale, ha generato, a partire dalla Grecia di Syriza, una serie di nuovi soggetti progressisti che devono essere degli interlocutori privilegiati del Pse. E c’è la significativa crescita del movimento verde con cui confrontarsi. La stessa evoluzione delle altre famiglie politiche tradizionali europee offre degli elementi da seguire con grande attenzione. Ci saranno forze liberali meno acriticamente entusiaste del mercato e della globalizzazione di quanto non lo sia la vecchia Alleanza dei liberali europea (Alde) e per questo disponibili a un confronto con il campo progressista? Nell’area popolare tutto il mondo di estrazione cristiano-sociale continuerà ad assistere alla sostanziale ambiguità del Ppe nei confronti delle forze illiberali e xenofobe come Fidesz di Orbán? Sono domande la cui risposta dipenderà anche dalla capacità dei socialisti di ripensare loro stessi. Il Pse continua ad ospitare, senza un serio confronto chiarificatore, esponenti politici che hanno partecipato da protagonisti alla stagione del rigore e dell’austerità cieca e che ancora oggi non sanno prendere le debite distanze da esso. E con essi rimangono nel campo socialista forze che hanno costituito un rapporto quanto meno controverso con il populismo e che hanno tutt’altro che sciolto diversi nodi attinenti allo stato di diritto e alla piena adesione a una moderna cultura dei diritti civili. C’è quindi molto lavoro da fare, ma non sarà la burocrazia del Pse con i suoi riti distanti a poter gestire con successo questo passaggio.

 

L’Europa è sempre più al centro del dibattito dei nostri paesi e dei nostri militanti. Ma la nostra casa europea è costruita senza alcun contatto con loro. Per questo, io penso che sia necessario procedere a un vero congresso del Pse basato sul principio secondo il quale l’iscrizione ai partiti aderenti dà luogo non solo formalmente a una vera iscrizione al partito europeo e con essa a un diritto-dovere di ogni singolo aderente di concorrere alla definizione dell’indirizzo politico e programmatico e alla scelta della leadership. Occorre, insomma, far nascere un vero partito transnazionale che assuma l’area dell’Unione europea come campo d’azione. Sarebbe un grande passaggio di crescita della consapevolezza collettiva immaginare quindici giorni nei quali, tutti gli iscritti contemporaneamente discutono sulla base degli stessi documenti, e delle stesse piattaforme nei 28 paesi dell’Unione, eleggendo poi una platea di delegati che a livello di Unione definisca una sintesi e un indirizzo comune e con essa un gruppo dirigente fortemente legittimato che possa diventare effettivo riferimento di una comunità politica. Le moderne democrazie nazionali sono cresciute grazie al radicamento dei partiti politici. Le istituzioni si sono avvicinate ai cittadini grazie a essi. Non può essere diverso per l’Unione europea e a noi che crediamo nell’esigenza dell’integrazione politica compete fare un primo passo in questa direzione.

 


 

Andrea Orlando è vicesegretario del Partito democratico