Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Il bis-Conte dimezzato. E Tria si prepara alla transizione

Valerio Valentini

Salvini apre la crisi ma teme il governo che ci porterà alle elezioni. Scenari

Roma. Che questa surreale crisi ferragostana graviti intorno a una figura un po’ inconsistente, qual è quella di Giuseppe Conte, ha in fondo una sua logica. Non solo e non tanto perché, nonostante tutto, resta pur sempre lui, ancora, il presidente del Consiglio, ma anche perché è paradossalmente proprio la sua remissiva flessibilità, il suo sapersi modellare alla bisogna, a permettergli di sperare che la sua permanenza a Palazzo Chigi non sia giunta a conclusione. Quando ha percepito l’approssimarsi dei tuoni della tempesta, l’“avvocato del popolo” s’è eclissato, lasciando che durante la discussione al Senato sulla Tav fosse una sedia vuota, in mezzo ai banchi affollati del governo, a rappresentare plasticamente l’essenza della sua supposta leadership. Matteo Salvini, ai suoi uomini, lo ripete da settimane: “Dietro a Conte c’è Mattarella, occhio. Le cose che lui dice sono ispirate dal capo dello stato”. E non a caso anche giovedì pomeriggio, quando gli eventi stavano ormai precipitando verso l’irrimediabile, la sintonia tra il premier e il presidente della Repubblica è tornata a percepirsi: perché il leader della Lega pretendeva da Conte dimissioni immediate da comunicare a Mattarella, al contrario il premier, che al Colle era già salito in mattinata, ribadiva la necessità di un passaggio formale alle Camere, da riaprire per l’occasione a inizio della prossima settimana. E però, se pure uguale era l’intento di Conte e Mattarella – chiamare, cioè, Salvini allo scoperto: fargli assumere la piena responsabilità della rottura – diversi erano gli scenari immaginati. Perché mentre Conte, nel silenzio di Palazzo Chigi, si adoperava per guadagnare tempo e ponderare la possibilità di un suo nuovo incarico, magari anche con maggioranze diverse, il capo dello stato, nel rispetto della grammatica costituzionale, vedeva nella parlamentarizzazione della crisi il passo necessario verso la formazione di un nuovo governo che porti il paese alle elezioni. 

 

Del resto, questo resta un punto fermo, nella dilagante confusione gialloverde: la volontà di Mattarella di affidare a un governo “di transizione” il compito di traghettare la crisi. A tal punto è solida, la certezza, che si vaglierebbe già il profilo del possibile nuovo premier: che non sarebbe stato individuato nella figura di Giancarlo Giorgetti (che giovedì, mentre circolavano indiscrezioni su un suo mandato esplorativo, era a spasso per i sentieri dell’Alpe Motta, in Valchiavenna), ma in quello di Giovanni Tria.

 

Uno scenario, questo, che deve spaventare non poco il leader della Lega, se è vero che, mentre chiedeva ai suoi contabili economici di preparare il budget per la campagna elettorale, dall’altra s’informava con chi gli tiene i conti in Parlamento di possibili ribaltoni parlamentari, venendo a sapere che anche cinque o sei dei suoi sarebbero pronti a tradire e a confluire tra i possibili “responsabili”. Il rischio della palude, Salvini, lo avverte: e forse anche per questo nella nota con cui giovedì, di fatto, ha sancito la morte del governo gialloverde, ha chiesto tempi rapidi e certi. “Andiamo subito in Parlamento per prendere atto che non c’è più una maggioranza”. E insieme alla palude, Salvini teme appunto la nascita di “un governicchio” che non a caso è stato il primo bersaglio della macchina della propaganda di Luca Morisi. Il quale dapprima, quando Salvini è arrivato a Palazzo Chigi per l’incontro decisivo con Conte, ha chiesto ai parlamentari leghisti di stare calmi, di “non allarmarsi”, e poi ha sguinzagliato la sua Bestia social ad abbaiare: “Stop governi tecnici”. Sintomo di una paura reale, specie perché, in uno scenario del genere, le elezioni nel 2019 sarebbero tutt’altro che scontate, e anzi molto più probabilmente potrebbero slittare all’estate del 2020.
Un canovaccio di questa stramba crisi programmata esiste già, e prevede un decreto, da varare probabilmente entro metà settembre, per rimandare di qualche mese l’attivazione delle clausole di salvaguardia: una sterilizzazione di qualche mese, con tutte le incognite del caso e il rischio di reazioni imprevedibili dei mercati. Una mossa azzardata, certo, ma che abbia la garanzia del Quirinale e di chi, con gli investitori internazionali e presso le cancellerie, goda di una certa stima. E chi, appunto, meglio di Tria? Per questo Salvini, che pure ha tentennato fino all’inverosimile (scongiurando una crisi che era già apparecchiata, all’indomani del voto dell’Europarlamento che ha promosso la Von der Leyen col contributo decisivo del M5s), ora ha fretta, e pretende forse qualcosa di impossibile. E cioè che il voto di sfiducia alle Camere avvenga già lunedì o martedì prossimi, comunque prima di Ferragosto: perché dopo, la scadenza del 20 agosto – insuperabile, se davvero si pretende di tornare alle urne tra il 13 e il 20 ottobre – sarebbe maledettamente vicina. Ma anche se quello scoglio fosse superato, dopo andrebbe individuato un “traghettatore”, un premier di transizione con un esecutivo istituzionale: e ci sarebbe di nuovo il rischio del pantano parlamentare. Difficile che Di Maio accetti di sostenere un governo del genere (e non a caso giovedì sera ha fatto sapere di essere pronto al voto). Ma basta farsi un giro tra le chat dei parlamentari grillini in vacanza per scoprire che sono ben più di un centinaio, tra Camera e Senato, quelli pronti alla diserzione. Un pericolo avvertito anche da Gianluigi Paragone, che non a caso già invia messaggi sibillini a Conte: “Può sperarci, certo, in un’intesa col Pd. Ma poi avrebbe la maggioranza?”. Forse no, perché il bis di Conte nasce già dimezzato, intermezzo tutt’altro che memorabile, destinato a fare da preludio all’altro possibile governo: quello, appunto, “tecnico”. I precedenti già ci sono: il Fanfani V (1983), e ancora di più il Fanfani VI (1987), furono governi nati proprio per durare poco, per gestire con ordine una campagna elettorale arrivata prima del previsto. Ma il timore di Salvini è che, se sarà Tria a prendere le redini del nuovo esecutivo, anziché a Fanfani il professore di Tor Vergata possa ispirarsi a un altro responsabile del Tesoro finito a Palazzo Chigi su mandato del Quirinale: e cioè Lamberto Dini. Il problema è che il governo Dini, anziché pochi mesi come era previsto, durò quasi un anno e mezzo. E questo, per il leader della Lega, sarebbe un grande problema.