Stefania Prestigiacomo, Nicola Fratoianni, Riccardo Magi a bordo della Sea Watch lo scorso gennaio (foto LaPresse)

Mi si nota di più se parlo di immigrazione oppure no? Il dilemma della sinistra sul caso Sea Watch

Luigi Di Gregorio

Teoria e prassi della retorica vuota di Salvini che rischia di attirare in una trappola l'opposizione

Come ogni vicenda di interesse per l’opinione pubblica, anche il travagliatissimo sbarco della Sea Watch ha finito per essere immediatamente brutalizzato e ipersemplificato in un derby tra due icone personali: Capitano vs Capitana.

 

In quel tipo di scontro, Salvini è un maestro, non c’è che dire. Mentre Carola Rackete scriveva “so a cosa vado incontro, ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo”, il ministro dell’Interno rispondeva a modo suo, con l’immancabile video, in cui dichiarava: “Questa sbruffoncella della comandante fa politica sulla pelle degli immigrati”, per poi aggiungere un sempre utile (perché pop) “mi sono rotto le palle”. Tradotto: da un lato, la capitana decideva (e annunciava pubblicamente) di infrangere la legge assumendosene la responsabilità e le conseguenze; dall’altro, il Capitano personalizzava immediatamente la vicenda (“sbruffoncella”) e poneva la questione della legalità e dell’arresto, per quanto fosse ben chiaro alla stessa Carola (“So a cosa vado incontro”), dimenticandosi di tutte le volte in cui lui stesso ha invitato a infrangere la legge: su Imu, unioni civili e normativa europea. D’altronde, i suoi “me ne frego” hanno fatto scuola e ormai non si contano più. Tuttavia, giocando efficacemente sulla memoria brevissima e sul cherry picking del pubblico, Salvini sa che chi sta con lui sceglie accuratamente quali gesti illegali e quali contraddizioni abbiano un peso e quali no. E infatti, nello stesso video, annuncia che “adesso, chi se ne frega, ne risponde”. Sarei anche d’accordo, se non fosse che…

 

  

I suoi due potenti attivatori cognitivi ed emotivi – sintetizzabili in “sbruffoncella” e “arrestatela” – hanno ben presto scatenato le truppe e incendiato il confronto pieno di pathos a cui ogni giorno non vediamo l’ora di partecipare, per una ragione o per un’altra. E’ una di quelle cose che ci fa sentire vivi e “importanti”: riceviamo gratificazioni immediate dalla nostra tribù a colpi di “like” e magari litighiamo un po’ con qualche contatto intruso da ostracizzare con l’aiuto dei commilitoni tribali in massa, per rinfocolare le nostre credenze con la versione digitale dei “due minuti d’odio” di orwelliana memoria.

 

 

Salvini è allo stesso tempo il modello di Lakoff e una specie di reincarnazione di Pavlov. Ha la issue ownership dei temi caldi per l’emozione pubblica (immigrazione e sicurezza in primis): tutti noi ci scaldiamo essenzialmente per i temi a lui più cari e funzionali. Perché in realtà lui si è posizionato abilmente sui nostri e il suo programma sono le nostre paure. Allo stesso tempo, Salvini possiede, più di ogni altro leader politico, le chiavi dei nostri stimoli condizionati. Suona la campanella, e mezza Italia sbava, per richiamare metaforicamente (?) il cane di Pavlov appunto. E lo fa a mo’ di ultras in un big match calcistico: non si pone problemi di coerenza logica (quante volte ha inneggiato alla disobbedienza civile infrangendo la legge, il Capitano?), di reale priorità della vicenda (siamo davvero invasi, o sono piuttosto le nostre teste a essere invase da notizie e immagini che hanno spesso a che fare con gli sbarchi?), di complessità della materia (quali sono le ragioni del Capitano e quali quelle della Capitana?), di stile e di opportunità (chi tra i due si è comportato da Capitano? Ha senso che un ministro risponda a una assunzione di responsabilità con attacchi personali?), di efficacia delle soluzioni (fermare le ong straniere, mentre ogni altro sbarco è garantito, risolve la questione? E’ possibile trovare una soluzione alternativa a questo traffico di ong? Urlare i nostri “me ne frego” all’Europa senza andare alle riunioni in materia e cercare alleanze utili è funzionale alla causa?).

 

Mentre il film dello sbarco va in onda, il pubblico sospende l’incredulità e si fa trascinare da chi meglio di altri riesce a emozionarlo. Al segnale di Salvini, si scatena l’inferno. Punto. Perché è un segnale tecnicamente perfetto (individuazione personale del nemico, con immagini e biografie a corredo di una narrazione e di stimoli emotivi efficacissimi in quanto popular: rabbia, paura, “confini sacri e inviolabili”, e una Capitana che ragionerebbe cosi: “Io sono bianca, ricca, benestante e tedesca, non so come occupare il mio tempo, vado in Italia a rompere i coglioni”, testuale) e si autoalimenta nell’effetto polarizzante e radicalizzante dei social network, nei quali ognuno si riscopre tuttologo e depositario della “verità”. Su queste piattaforme online, il ministro sceglie con cura tutte le conferme della sua tesi ed evit – con altrettanta cura – tutto ciò che la smentisce, favorito da “bolle” e “camere dell’eco” che fungono da rinforzi positivi del nostro fisiologico bias di conferma. Sono cose note e hanno a che fare con la natura umana. Esaltate dalla società di massa e dai mass media contemporanei. Tutto sta nel sapere sfruttare queste dinamiche. E nessuno lo fa bene come il Capitano. Magari occorrerebbe anche porsi qualche domanda sul punto di caduta di quello sfruttamento. E su questo, mi pare che ogni leadership/followship contemporanea sia latitante: se l’obiettivo è sintonizzarsi sull’opinione pubblica istante per istante e cavalcare istinto per istinto, il medio periodo non rientra nei piani. Ma prima o poi arriva e non sappiamo in quali condizioni ci troverà in questo piano inclinato divisivo e febbrile.

 

Ovviamente esiste anche l’altra tribù, quella della Capitana, ossia quella del Pd e dintorni. Tuttavia, ritengo che in quel “fan club” si stia commettendo un errore che proprio Lakoff sottolineerebbe con la matita blu. Il fatto che Delrio, Orfini, Fratoianni e Magi scelgano di andare a Lampedusa e di dormire sulla Sea Watch in segno di solidarietà con i migranti e con Carola Rackete può certo dare un segnale forte alla propria tribù, ma lo fa su un terreno in cui essi sono perdenti. E’ esattamente l’elefante di Lakoff: reagire in maniera ipervisibile all’altrui narrazione in onda 24 ore su 24 ha un senso, perché dà un segnale di vita, ma implica una vocazione minoritaria se lo si fa su un argomento non dominato. La vera sfida, per la sinistra come per la destra non salviniana, è trovare altre tematiche di cui impossessarsi e renderle “stimolanti” per media e opinione pubblica tanto quanto l’immigrazione (e i suoi derivati securitari). Non pensare all’elefante (migrante), in sintesi.

 

Insomma, il “dì qualcosa di sinistra” di morettiana memoria non funziona per recuperare terreno, se il campo di gioco è quello dell’avversario. Tanto meno in questo momento storico iperdivisivo in cui prevalgono sentimenti e atteggiamenti difensivi e livorosi verso l’altro (che sia straniero o semplicemente facente parte di una comunità percepita come altra) e in cui è diffusa la percezione di una sinistra ormai lontana dagli ultimi e pronta ad attivarsi solo per gli stranieri (magari per sfruttarli). Al contrario, ogni reazione su quel terreno continua a mantenere in agenda vicende e tematiche che portano tanta acqua al mulino di Salvini. Tornando a Moretti: “Mi si nota di più se vado o se non vado a Lampedusa, cioè alla festa di Salvini?”. Sicuramente se vai… ma proprio per questo, se non vai è meglio.