Stefano Lo Russo (foto LaPresse)

Oltre il Pd romanizzato

David Allegranti

Il centrosinistra lombardo (con una sponda piemontese) cerca un modello alternativo allo zingarettismo

Milano. La romanizzazione del Pd di Nicola Zingaretti, côté Piazza Mazzini, apre spazi d’azione alternativi nel centrosinistra al nord, tra Lombardia e Piemonte. Soprattutto in Lombardia, dove molti sindaci hanno capito che questo Pd a parole dice di voler “ripartire dai territori” ma nei fatti penalizza gli amministratori. Eppure è proprio dai mitologici territori, evocati quanto bistrattati, che si cercano soluzioni, modelli politici e di leadership, per contrastare la Lega di Matteo Salvini. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, di recente ha spiegato che la passata gestione del centrosinistra sull’immigrazione è stata troppo lassista. Gori ha anche spiegato che nella sua esperienza di amministratore più volte si è trovato a dover rassicurare i suoi cittadini. Per questo ha molto apprezzato l’intervento di Marco Minniti di lunedì scorso sul Foglio nel quale l’ex ministro dell’Interno ha spiegato perché il controllo dell’immigrazione non può essere un’esclusiva della destra. Ed è nella mancanza di ascolto delle nuove paure dei cittadini, ha detto Gori, che va trovata la difficoltà del centrosinistra nel fronteggiare la Lega.

   

Il sindaco di Bergamo da qualche tempo ha avviato una collaborazione con altri sindaci lombardi, da Emilio Del Bono, sindaco di Brescia, a Mattia Palazzi, sindaco di Mantova, a Gianluca Galimberti, sindaco di Cremona. Sabato scorso Gori, Del Bono e Galimberti erano insieme alla Festa dell’Unità di Scanzorosciate per parlare della “Politica della buona amministrazione”. In questi anni si sono confrontati spesso sulle politiche da condividere, sul turismo e la cultura per esempio. Da una parte c’è l’idea di controbilanciare lo strapotere di Milano, dall’altra però c’è l’intenzione di offrire un modello diverso rispetto all’attuale Pd. Certo, sempre restando nel Pd. Gori, infatti, non crede al “partito dei sindaci”.

   

C’è poi Beppe Sala, con cui Gori ha un rapporto molto stretto, e che invece da mesi manda segnali di insofferenza nei confronti del partito con cui ha vinto le elezioni a Milano. Anzitutto, nelle interviste ribadisce in continuazione che lui non ha la tessera del Pd. Quando parla del suo futuro, lascia intuire che non gli dispiacerebbe una prospettiva nazionale. Il Pd lo lascia piuttosto freddo, così come le iniziative di Carlo Calenda: “Probabilmente c’è uno spazio verso il centro e verso i moderati, progetto in cui io non mi riconosco molto. E’ lo spazio che vorrebbe occupare Calenda”, ha detto in un’intervista al Corriere della Sera. Ancora non ha detto se si ricandiderà a sindaco (si vota nel 2021) e domenica ha spiegato che deciderà “a settembre dell’anno prossimo. E’ chiaro, però, che se mi ricandidassi non lo farei in continuità con me stesso”.

 

In diversi si sono chiesti che cosa intenda Sala con quell’accenno alla discontinuità. Una probabile risposta è che il sindaco di Milano cerchi altri interlocutori rispetto al Pd, un partito che nel capoluogo lombardo non ha forza contrattuale (basta dare un’occhiata alle nomine nelle partecipate del Comune di Milano, da Sea a MM a Milano Ristorazione). Non è un mistero che Sala abbia ottimi rapporti con i governatori leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia. Un dialogo che dopo la vittoria di Milano e Cortina delle Olimpiadi invernali del 2026 è destinato a farsi ancora più stretto. Il disinteresse di Sala per l’esercizio di una leadership all’interno del Pd, però, lascia proliferare a Milano iniziative interne ai Democratici. Nei giorni scorsi, riferisce Affari Italiani, è nata RiforDem, l’associazione gentiloniana, quindi zingarettiana, fondata da Lia Quartapelle, già renziana, e i consiglieri regionali Jacopo Scandella e Pietro Bussolati (quest’ultimo è da poco nella segreteria nazionale del Pd con delega a Imprese e professioni). Da come si autodescrive, Sala nelle sue ambizioni nazionali sembra volersi presentare come una sorta di Romano Prodi.

 

C’è però un problema. Sala rappresenta la milanesità e la parte più difficile per lui sarebbe uscire dal cliché della “Milano da bere”. Il rischio sarebbe quello di non riuscire a prendere voti dall’Emilia Romagna in giù. D’altra parte però se l’obiettivo è deromanizzare un Pd eccessivamente parlamentarizzato, la via non può che essere quella di puntare sull’esperienza amministrativa milanese. “Il centrosinistra, pur nelle difficoltà generali, in molte realtà locali ha vinto, e non solo al nord, dove aveva validi amministratori”, dice al Foglio il capogruppo del Pd a Torino Stefano Lo Russo, che insieme ad altri sta lavorando in Piemonte per costruire una rete trasversale a sostegno di Sala.

 

“Per questo nel Pd servirebbe un maggior impulso a riprendere i contatti con le autonomie locali. Il tema da affrontare è quello di un partito nazionale che deve riannodare i fili con il territorio; è una prospettiva più interessante su cui vale la pena lavorare rispetto alle varie ipotesi di costruzione artificiale di civismo che spesso sentiamo in questi mesi”. Insomma, aggiunge Lo Russo, in questo Pd “dovrebbe essere recuperata e valorizzata la credibilità del nord produttivo e delle realtà amministrative anche medio-piccole, che percepiscono Roma e le sue logiche come entità lontane e astratte. Un po’ come ha fatto la Lega, che non a caso ha sempre valorizzato i propri amministratori. Pensiamo al nuovo presidente della regione Piemonte Alberto Cirio, che viene da quel percorso e in giunta ha messo persone legate al territorio”.

 

Il Pd, invece, sembra essere prigioniero delle solite logiche, osserva Lo Russo: “In troppi casi tende a prevalere ancora troppo il correntismo di appartenenza”. Ora, è difficile vedere quale sia il punto di caduta di questo percorso appena iniziato. Anche perché non c’è certezza sulla tempistica elettorale. La maggioranza di governo, nonostante lo scazzo continuo, non sembra aver incentivi a mollare. L’unico che potrebbe farlo, semmai, è Salvini, qualora capisse di poter tornare a governare da solo (insieme ai sovranisti di Fratelli d’Italia). Ed è a quel punto che potrebbe tornare utile questa “cosa” di centrosinistra del nord.

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  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.