Carlo Calenda (foto LaPresse)

I liberali non esistono se sulla globalizzazione fanno i populisti

Nicola Rossi e Alberto Mingardi

No: una forza liberale non può limitarsi a essere a favore della redistribuzione. Una lettera a Carlo Calenda

Il dibattito politico non dovrebbe essere confinato agli addetti ai lavori ma, se possibile, allargato agli elettori. Ed è in questa veste – e solo in questa veste – che ci permettiamo di dare seguito a quanto scritto da Carlo Calenda sul Corriere della sera qualche giorno fa, ponendo in particolare a quest’ultimo una semplice domanda. Se – come Calenda sostiene – “nessuno mette più in discussione il fatto che le disuguaglianze vadano ridotte anche attraverso l’azione dello stato, le transizioni governate a partire dalla globalizzazione e i pilastri del welfare pubblico rafforzati”, a che serve una forza liberale?

 

In presenza di una legge elettorale ormai proporzionale, è comprensibile che si provi a differenziare l’offerta politica, nella consapevolezza che si può essere decisivi anche con percentuali modeste. Ha tuttavia poco senso “differenziarsi” se si parte dalla convinzione che alcune cose nessuno le mette più in discussione. Una “forza liberale” dovrebbe invece proprio metterle in discussione certe cose. Le proposte populiste – in senso lato – girano attorno all’aspirazione a un maggior grado di redistribuzione all’interno di una comunità che sappia tornare culturalmente omogenea. Una forza liberale dovrebbe spiegare che sia una maggiore redistribuzione che una maggiore omogeneità culturale hanno dei costi in termini di crescita economica e, soprattutto, di libertà delle persone. Una forza liberale dovrebbe ricordare i benefici di una intensificazione degli scambi internazionali, che si traducono in una migliore allocazione dei fattori produttivi e, in ultima analisi, in più beni e servizi, a costi accessibili come non mai per quote crescenti della popolazione mondiale (i liberali, com’è noto, sono rimasti gli unici a preoccuparsi di chi non ha, dovunque egli si trovi).

 

Nessuno nega che gli aggiustamenti possano rivelarsi dolorosi: ma la storia italiana anche recente insegna che se si cerca in tutti i modi di evitarli, gli aggiustamenti, non si fa che costringere il contribuente a sopportare i costi dell’inefficienza. Questo indipendentemente dalle buone intenzioni dei governanti: le tante crisi industriali che stanno venendo al pettine in queste settimane dovrebbero essere maestre. Una forza liberale dovrebbe pensare alla lotta alla povertà, più che sostenere che l’esistenza dei poveri sia una conseguenza dell’esistenza dei ricchi (il dibattito sulle disuguaglianze, purtroppo, molto spesso si riduce a questo). E, esattamente per questo motivo, dovrebbe spiegare come i pilastri del welfare pubblico molto spesso tutto facciano fuorché innalzare chi sta peggio, ma anzi abbiano costruito un complesso schema redistributivo a vantaggio delle classi medie e più abbienti. E questo tanto più in quanto lo si è fatto e si intende farlo a debito. Una forza liberale dovrebbe chiarire, invece, che disciplina di bilancio e regole di responsabilità fiscale sono strumenti potenti per la promozione dell’equità e la difesa della libertà delle persone.

  

Carlo Calenda sembra convinto, e non da oggi, che le risposte offerte dai cosiddetti populisti siano grosso modo quelle giuste, e proprio per questo sarebbe meglio se trovassero alfieri più eleganti, posati, di mondo. Il tempo ci dirà se e fino a che punto gli elettori guarderanno con simpatia ai “populisti con i guanti bianchi”. A noi appare al contrario che le risposte offerte dai populisti siano pressoché sempre quelle sbagliate, e che se c’è un ruolo, dentro e fuori la politica, per i liberali, sia proprio quello di spiegare perché si tratta delle risposte sbagliate. Se gli obbiettivi sono altri, non c’è nessun bisogno di scomodare la cultura liberale. Se si vuole praticare la nobile arte della differenziazione nella omogeneità, basta riscoprire la tradizione – così diffusa ai tempi del proporzionale – degli indipendenti. Una nobile tradizione particolarmente presente a sinistra e alimentata dai tanti che pur essendo eletti nelle liste di un partito o, addirittura facendone parte, avvertivano l’urgenza impellente di dover segnalare in qualche modo il loro “essere altro”.

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