Paolo Arata (foto Imagoeconomica)

Uno, cento, mille Arata. Ritratto del nuovo uomo nero della Lega

Riccardo Lo Verso

Non un leghista qualunque. Cosa dice l’ordinanza che ha portato in carcere uno dei consiglieri energetici del salvinismo

Palermo. Basta varcare lo Stretto e toccare la sponda siciliana per essere risucchiati in un limbo dove tutto puzza di mafia. E’ la mafiosità che finisce per connotare ogni gesto, ogni azione, ogni parola di Paolo Arata, che da ieri è finito in carcere per i suoi affari con Vito Nicastri, soprannominato il “re del vento” per la sua capacità di fare soldi con le energie rinnovabili. Una mafiosità che va oltre le stesse valutazioni del giudice per le indagini preliminari che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare per Arata, Nicastri e i rispettivi figli, ma ha detto “no” all'aggravante prevista per chi favorisce Cosa Nostra. Già giudicato colpevole per truffa e indagato per mafia, di Nicastri, a cui è stato confiscato un patrimonio miliardario, si ricorda soprattutto la vicinanza con Matteo Messina Denaro a cui avrebbe garantito, a suon di piccioli, una dorata latitanza.

 

Nel 2015 le strade di Nicastri e Arata si incrociano. Il primo, così ricostruiscono la procura di Palermo e gli agenti della Dia, ha bisogno di un volto pulito per portare avanti i suoi affari. Il secondo, Arata, si sarebbe fatto sedurre “portando in dote alle iniziative imprenditoriali con Nicastri gli attuali influenti contatti con esponenti del partito della Lega, effettivamente riscontrati e spesso sbandierati dall'Arata medesimo e di cui informava puntualmente Nicastri”. Il riferimento del giudice sembrerebbe ritagliato sulla figura di Armando Siri, il sottosegretario “dimissionato” dopo essere stato stato coinvolto nella tranche romana dell'inchiesta per una presunta mazzetta.

 

Frasi appena sussurrate negli atti palermitani dell’indagine dove ci sono anche le telefonate in cui Nicastri chiede ad Arata di fare sponsorizzare a Siri la nomina di un burocrate regionale. Erano i giorni di dicembre di due anni fa quando non era ancora chiaro quale maggioranza di governo si sarebbe formata all’esito delle elezioni regionali siciliane. Poi, la Lega decise di non entrare nella giunta del governatore Nello Musumeci. Tutto è confluito nella nuova informativa che la Direzione investigativa antimafia sta scrivendo per i pubblici ministeri della Capitale.

 

L'indagine di ieri consegna alle cronache il ritratto di un uomo, Arata, che sveste i panni del professore per indossare quelli dell'affarista senza scrupoli. E in Sicilia se si fanno affari nell’eolico si finisce per parlare di mafia. Ne era convinto per primo Totò Riina che nello sfogo carcerario intercettato a Milano Opera prima che morisse se le prendeva con “questo signor Messina (Matteo Messina Denaro ndr)... questo che fa il latitante che fa questi pali eolici”. Il capo dei capi era tutt’altro che tenero con il padrino di Castelvetrano: “… i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce…”. Come dire: Messina Denaro se ne infischia di Cosa Nostra. Più chiaro di così.

 

Arata varca lo Stretto e le tinte del suo ritratto si fanno foschissime. Il docente che fu commissario straordinario per l’emergenza delle mucillagini che infestavano il mare Adriatico negli anni Ottanta, il parlamentare di Forza Italia nel corso della Prima Repubblica, lo studioso di Ecologia nominato alla presidenza del Comitato interparlamentare per lo sviluppo sostenibile che si interfacciava con l’Onu, lo studioso interpellato quando nel 2017 la Lega stilava il programma di governo e il patto gialloverde era ancora impensabile (“Ha partecipato a un solo convegno e me lo ritrovo consulente della Lega”, taglia corto oggi Matteo Salvini) sbarca in Sicilia e si presta al gioco sporco di Nicastri.

 

Dai pedinamenti vengono fuori immagini simbolo: gli incontri al bar con i funzionari regionali per spingere le pratiche negli assessorati, quelli al distributore di carburanti di una strada provinciale, le indicazioni che Nicastri passava al figlio di Arata, pure lui arrestato. Arrivavano letteralmente dall'alto le indicazioni, calate con un paniere dal balcone dell'abitazione di Alcamo dove Nicastri era detenuto agli arresti domiciliari. Proprio come si fa ancora nelle strade dei paesi siciliani per portare in casa la spesa comprata dal venditore ambulante.

 

L’immagine più forte è quella della telefonata che Francesco Arata fa al padre Paolo per comunicargli “una brutta notizia”. Un giorno di giugno dell’anno scorso aveva chiesto, assieme al figlio di Nicastri, ad un meccanico catanese di bonificare la macchina. Avevano il sospetto di essere intercettati. Non si sbagliavano. Saltò fuori una microspia. Il figlio corse al telefono e avvisò papà Paolo che si fece più prudente, ma non si fermò. Gli affari dovevano andare avanti nonostante fossero spiati proprio come in Sicilia accade ai boss. Che parlano a ruota libera fornendo il materiale che farà da ossatura ai mandati di cattura. Arata ha commesso lo stesso errore dei mafiosi: “…qui stiamo parlando in camera caritatis. Io sono socio di Nicastri al 50 per cento…”, diceva mentre gli agenti registravano.