Matteo Salvini (foto LaPresse)

Ogni europeo alla fine ama un trucista

Giuliano Ferrara

Autobiografia di una nazione. Il fascismo come gesto e come tecnica è un aspetto durevole della nostra storia, del nostro modo di sentire e praticare la massificazione sociale

Ma è evidente che il Truce, non solo quando parla dal balcone come a Forlì, è un fascista italiano. Lucio Colletti diceva che in certe facce e in certi comportamenti il fascismo lo si ravvisa a occhio, come una qualità naturale, una energia originaria, come la crescita nell’orto di un cespo di insalata. Ma detto questo si è detto niente di sapido, di politicamente rilevante. Piero Gobetti, un intellettuale della disperazione, parlava del fascismo come di “un’autobiografia della nazione”. Benedetto Croce, scrittore grandissimo del cinismo realpolitico, lo definiva “una parentesi”. E’ chiaro come il sole che aveva capito quel che c’era da capire Gobetti, intrinseco al fondo democratico e conciliare della utopistica rivoluzione liberale cosiddetta, e Croce forzava invece un’interpretazione riduttiva per difendere il liberalismo mai fiorito del suo vecchio mondo prefascista, quello delle élite travolte dall’irregimentazione delle masse.

 

Quando ritirarono fuori quella storia di Jaime Pintor, martire nella Resistenza, che aveva partecipato a un convegno di cultura europea a Berlino nel 1942, celebrante Joseph Goebbels, mi sembrò giusto, e confermo, osservare come l’episodio dicesse altro da quello che gli si voleva far dire: non che Pintor fosse pronubo al nazismo, ma semmai che il nazismo era l’autobiografia della nazione tedesca dopo la crisi di Weimar, e la Germania anche sotto il regime di Hitler conservava agli occhi di intellettuali pronti alla ribellione libertaria il suo statuto centrale di grande paese di cultura e di irradiamento storico di valori. Tanto che il giovane germanista, nutrito di Rilke e di altri decadentismi e estetismi, poteva conversare a Berlino in una discussione di cultura europea mentre nel segreto si approntava, a Potsdam, il piano particolareggiato della soluzione finale, cioè dello sterminio degli ebrei d’Europa.

 

Il trucismo ovvero il fascismo come gesto e come tecnica è un aspetto durevole della nostra storia, del nostro modo di sentire e praticare la massificazione sociale, nel senso del “cervello all’ammasso” (Guareschi, mi pare). Il regime democristiano nella costruzione originaria di De Gasperi lo aveva sradicato con la scelta atlantica, l’europeismo e l’alleanza di governo con i laici minori. Ma già nell’attivismo di un Fanfani, e poi perfino nel decisionismo di Craxi, socialista democratico di grande caratura, o nella “differenza antropologica” di Berlinguer, concetto pregno di un eroismo prettamente illiberale, definito in fase di rinnegamento del compromesso storico, i tic dell’autobiografia erano riemersi, in tutt’altro contesto, con tutt’altri mezzi, e sempre in un quadro repubblicano, della Repubblica di partiti e dell’arco costituzionale. La verità è che il liberalismo è minoranza assoluta nell’Europa continentale, e ora prende colpi duri perfino in Inghilterra, dove Edmund Burke ne mise le basi filosofiche e storiche le più durevoli, criticando in nome del pregiudizio conservatore e tradizionalista l’irregimentazione sanculotta di Parigi. Ed è sempre una mescolanza di rosso e di nero, di differenti trucismi, ciò che riempie il vuoto del liberalismo.

 

Che poi sia inconclusivo e controproducente gridare all’armi e al lupo, riprodurre stilemi dell’antifascismo novecentesco, nel caso del Truce è ovvio. Un conto è sorvegliare, vigilare, denunciare, cogliere le analogie di una perversione che ritorna e che è patologica, almeno in quelle forme, come fa il bel libro di Siegmund Ginzberg sulla sindrome 1933, un altro conto è ricondurre al fascismo europeo degli anni Trenta, così, semplicemente, il fenomeno impressionante del consenso per idee e idiosincrasie ributtanti, tanto vasto e solido non solo in Italia. Abbiamo avuto, dopo la crisi dei partiti e la fine virtuale della democrazia rappresentativa, ridotta a casta dalle campagne di smerdamento delle élite mediatiche, due leadership di timbro vagamente e vanamente liberale, quella di Berlusconi, che è rimasto per mezza Italia il Cavaliere nero, e quella di Renzi, che è stato travolto dal mito dell’uomo solo al comando. Il pensiero obbligato e corretto vede sempre il fascismo dove non c’è, e ora che ha avuto il meritato castigo di una gestualità trucista al potere, forse dovrebbe sospendere il giudizio affrettato e la conclusione automatica, senza perdere il piacere di capire che ogni italiano, ogni europeo, in mancanza di una forte inclinazione liberale, alla fine si riguarda nella sua autobiografia e ama un trucista. 

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.