Lo striscione esposto dagli ultrà della Lazio vicino piazzale Loreto a Milano

L'antifascismo, gli ultrà e quelle armi improprie

Giuliano Ferrara

Lo striscione per il Duce era disgustoso, ma il carattere democratico dell’antifascismo non va confuso con un manipolatorio reducismo

Lo striscione ultrà in onore di Mussolini era grottesco, e in più era disgustoso. Ma la sola idea di una persecuzione in giudizio per “associazione a delinquere” di quei tifosi indementiti dalla formidabile tradizione razzista e fascista della Società Sportiva Lazio, la Ss Lazio (nomen omen), è anch’essa grottesca. La celebrazione della festa della Liberazione, settantaquattro anni dopo, aveva bisogno di intelligenza, creatività libera, rigore istituzionale, e un palpitare primaverile del cuore per simboli e realtà di un giorno di gloria, magari in un linguaggio accorto e non pomposo, non vagamente strumentale. Non aveva bisogno di insegne cielleniste in ritardo, non di censure e cancellazioni di torti, che ci furono da entrambe le parti, in quella che fu una eroica Resistenza e anche una guerra civile sanguinosa, ardente e come tutte le guerre civili anche perversa. Il presidente comunista della Camera, Violante, ebbe un tempo il coraggio civile di trasportare dentro le istituzioni, in un discorso rimasto negli annali, il lavoro di ricostruzione storica e di riassetto mentale, oltre che fattuale, che aveva portato le menti meno ottuse della generazione democratica a riguardare con rigore e senza baldanza vincitrice i dati della storia di quegli anni. Il torto e la ragione erano ben divisi, e i fascisti di Mussolini occupavano in chiarezza monumentale il settore del torto; ma le motivazioni, le intenzioni morali, l’intreccio tragico delle storie individuali e di gruppo meritavano non il revisionismo generico e negazionista, però sì meritavano la riconsiderazione storica e etica.

   

Il cretino fascista combattente non ha, come si dice, “le sue ragioni”, ha un torto inverosimile che offende ogni ragione, ma il cretino antifascista combattente, in ritardo esattamente come il suo opposto, e imbolsito nel suo ritardo, finisce per mettere nel circolo vizioso del torto i buoni sentimenti e i buoni argomenti dell’antifascismo vero, che da anni dovrebbe non più essere stupido e vendicativo. C’è della gente, e che siano lì a rappresentarla un branco di coglionazzi non cambia nulla, che considera Mussolini, con il suo mito della nazione patriottica e dell’Impero, con la sua vitalità burlesca di strongman degli anni Trenta, un eroe carico di speranza e di fascino tradito dal suo paese voltagabbana. Il Truce e il suo trucismo ci speculano. Ma vicino al luogo di ostensione dello striscione demente c’è la piazza, piazzale Loreto, in cui il dittatore caduto e catturato, insieme alla sua amante stordita e trepida, fu “appeso come un bove pe’ li piedi”, come diceva in romanesco mio padre in un sonetto. Fu un atto ribaldo e di baldoria dei vincitori di cui nessun antifascista consapevole è fiero, nonostante il fatto che la causa della simbolizzazione partigiana fosse la rappresaglia per stragi di uomini liberi.

   

L’antifascismo militante, così veniva definito e si autodefiniva, ha cosparso di reticenze, bugie e violenze politiche il percorso della generazione dei Settanta, epoca folle di estremismi parolai e di bastonature e omicidi politici. Il ciellenismo dei Pertini, dei Parri e degli Amendola non c’entrava punto. La retorica della Liberazione senza la storia vera, senza la comprensione storica a distanza del fenomeno, ha cosparso per lungo tempo il tempo malato della Repubblica di vergogne inconfessate, di abili manipolazioni, e di destini costruiti nella finzione, e sempre all’insegna della censura, della messa fuorilegge, dell’emarginazione delle idee, anche le più risibili e offensive per il ricordo popolare dell’antifascismo vero.

    

E’ stata una stagione di errori, di forzature, di strumentali abbracci, di nascondimenti, di tradimento dei chierici, che ha avuto anche una funzione liminare, se non di fiancheggiamento, dell’equivoca e mortuaria ideologia del terrorismo delle Brigate rosse. Fu il mito della Resistenza tradita, fu il riciclaggio insincero della vampata di violenza civile di cui in effetti la democrazia del 25 aprile è figlia, ma solo se ne riconosca tutti gli aspetti, anche i più equivoci e traversi. Qui per anni si fece una battaglia per affermare che il carattere democratico, repubblicano, popolare e istituzionale dell’antifascismo non doveva essere confuso con una specie di terrorismo antifascista e di manipolatorio reducismo. Ora siamo arrivati, a forza di 25 aprile divisivi, in cui si mettevano in discussione di volta in volta la Brigata ebraica, l’unità democratica, o anche soltanto la pietà che riguarda l’insieme della storia nazionale, a una caricatura di fascismo col mitra e a una caricatura di antifascismo con l’arma impropria, e sommamente ridicola, della “associazione per delinquere” scagliata contro il nemico. Non è un buon approdo, non è un approdo antifascista.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.