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Allargare sì, ma per dire cosa? Il Pd e le europee

Claudio Cerasa

Perché l’opposizione rischia l'effetto bromuro se si concentra solo su ciò che non è

Nicola Zingaretti ha detto ieri con voce soddisfatta che le liste presentate dal Partito democratico per le prossime europee riflettono una promessa fatta qualche settimana fa dal segretario del primo partito d’opposizione, che aveva assicurato che il Pd si sarebbe avvicinato all’appuntamento del 26 maggio ponendo le basi per costruire una grande alleanza “da Macron fino a Tsipras”. Le liste del Partito democratico sono effettivamente molto variegate, il segretario ha scelto di dare spazio nella sua tenda ad alcuni esponenti del Pd suggeriti da Carlo Calenda (che qualora fosse eletto in Parlamento non indosserà la casacca del Pse), ha messo in lista alcuni scissionisti ferocemente anti renziani (Maria Cecilia Guerra, Massimo Paolucci), ha strizzato l’occhio al grillismo candidando l’ex procuratore antimafia Franco Roberti (capolista al sud) e infine ha offerto una candidatura a un’esponente del partito di En Marche (Caterina Avanza), come fatto in Francia da En Marche con Sandro Gozi (già finiti i tempi del Pd impostato sul modello “meno Macron” annunciato la scorsa estate su Rep. da Zingaretti).

   

Lo schema di gioco scelto è chiaro. Il modello si trova a metà tra Prodi (l’Ulivo-Unione europeista) e “Io penso positivo” di Jovanotti (“Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa passando da Mdp attraverso Macron e San Patrignano”). Ma quello che resta ancora da definire e che rischia di non essere definito anche a causa dell’allegra ammucchiata democratica è la risposta a una domanda: tutto questo per fare cosa? La risposta più semplice a questa domanda è che il Pd di Zingaretti vuole fare di tutto per ottenere alle elezioni una percentuale più alta rispetto a quella ottenuta alle politiche da Matteo Renzi (18,7 per cento) e una percentuale più alta rispetto al dato futuro del M5s. Ma una volta capito qual è l’obiettivo, il più grande partito d’opposizione dovrebbe avere il coraggio di comprendere che la strategia di breve termine proiettata sul lungo termine può dare sì qualche soddisfazione a livello numerico, ma senza una svolta, per così dire, rischia di condannare il Pd all’irrilevanza e rischia di non andare a incidere nelle meccaniche interne al bipolarismo di governo formato da Lega e M5s.

   

La questione politica di fondo su cui dovrebbe riflettere il nuovo corso del Pd è che un partito che fa notizia solo per quello che fa, e mai per quello che dice, è un partito che non ha altro punto di forza se non il suo posizionamento strategico all’interno della scacchiera della politica. Fino a oggi, l’idea “forte” del Pd di Zingaretti è stata quella di allargare quanto più possibile il bacino della rappresentanza del partito per intercettare più elettori rispetto al passato. Ma quando un partito sceglie di trasformare nel suo principale tratto distintivo la parola “unità” quel partito deve sapere che si trova di fronte a un problema che merita di essere affrontato. Il punto non è dunque chiedersi “allargare, sì, ma per fare cosa?”. Il punto è chiedersi “allargare, sì, ma per dire cosa?”. Nel suo primo mese da segretario, Zingaretti ha trasformato l’unità più in un fine che in un mezzo. Trasformare l’unità in un fine significa scommettere sull’idea che sia il semplice posizionamento all’opposizione a portare acqua al mulino dell’alternativa. Trasformare l’unità in un mezzo significa invece scommettere sull’idea che una buona leadership per essere efficace, per fare notizia, per bucare lo schermo, per essere ambiziosa, per essere espansiva, per regalare un sogno, per evitare l’effetto soporifero, debba essere anche divisiva. Il centrosinistra di oggi, con il suo essere antisovranista, antiprotezionista, antipopulista, anti-antieuropeista, dà all’elettore un’idea buona rispetto a quello che non è. Ma un partito che si limita a scommettere più su quello-che-non-è che su quello-che-è è un partito destinato a comportarsi ancora a lungo più da onesta opposizione che da alternativa credibile capace di colmare il grande vuoto della politica di oggi. Un vuoto che non riguarda solo chi non si riconosce in questo governo, ma prima di tutto chi non si riconosce neppure in questa opposizione.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.